Le donne cambiano la Storia, cambiamo i libri di Storia.

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14 agosto 2015

La Turchia, i Curdi e l'Isil

riprendo integralmente da Informazione Corretta  13.08.2015

Turchia/Curdi: le politiche sbagliate di Usa e UE
Analisi di Gian Micalessin, Carlo Panella

Testata:Il Giornale-Il Foglio
Autore: Gian Micalessin-Carlo Panella
Titolo: «Così Turchia e UE innescano la bomba che ci distruggerà-Pax curda»

Riprendiamo dal GIORNALE e dal FOGLIO due articoli sulla politica della Turchia di Erdogan, rivelatori di come il sultano turco stia in realtà schierato dalla parte del terrorismo musulmano. Si possono mettere in evidenza le differenze fra le diverse anime curde, come fa Carlo Panella, ma è indubbio che i curdi stanno lottando da soli contro il terrorismo, lasciati soli dalla inetta e pericolosa politica americana.

Il Giornale-Gian Micalessin: " Così Turchia e UE innescano la bomba che ci distruggerà "

Chi si ostina a chiamarla tragedia apra gli occhi. Quella dei migranti è diventata una guerra. Una guerra combattuta contro di noi dalla Turchia e dai suoi alleati della Fratellanza Musulmana. Tra cui quella Libia in mano ad una coalizione islamista che l'ha trasformata nella cornucopia della migrazione illegale. Una guerra combattuta non a colpi di bombe, ma a raffiche di disgraziati mandati a spiaggiarsi sulle coste dell'Italia e della Grecia. Sotto gli occhi - più indifferenti che impotenti - dell'Unione Europea e di un'Alleanza Atlantica di cui Ankara continua - impropriamente - a far parte. L'arrivo, dall'inizio dell'anno, di 124mila migranti sulle isole greche di Lesbos, Chios, Kos e Samos è la dimostrazione più evidente di questa nuova guerra. Una dimostrazione quasi invereconda dal momento che la marea umana - e la macchina criminale che la governa - non sono, come succede in Libia, il frutto di una nazione allo sbando. Lo tsunami migratorio che rischia di trascinare a fondo una Grecia già spossata dalla crisi economica si dispiega da una Turchia in piena forma bellica e strategica. Una Turchia impegnata a bombardare i territori curdi in Siria ed in Iraq e pronta a mobilitare 18mila soldati per creare una zona cuscinetto profonda 30 chilometri e lunga cento alla frontiera con la Siria. Una zona da cui partiranno nuovi profughi visto che curdi e cristiani dovranno abbandonarla per far posto ai ribelli islamisti, veri manutentori del nuovo ordine turco.
Eppure la Turchia del presidente Recep Tayyp Erdogan, così efficiente nel far valere le proprie ragioni strategiche, non muove un dito per bloccare i trafficanti di uomini che operano indisturbati a Bodros, Izmir e Canakkale, le città costiere turche da cui partono per la Grecia una media di mille esseri umani a notte.

Ancor più incredibile è, però, il sopito stupore con cui l'Unione Europea guarda al nuovo esodo. Quei migranti approdati in Grecia non sono i figli di un'imprevista avversità cosmica, ma l'avanguardia del milione e 800mila profughi siriani accampati da quattro anni in territorio turco. Un'inevitabile conseguenza delle strategie di Ankara rivelatasi però tanto costosa da mantenere quanto sgradita all'opinione pubblica turca. Proprio per questo Ankara si guarda bene dal bloccare le organizzazioni criminali impegnate a trasferirli surrettiziamente in Grecia ed in Europa.

Del resto nulla di nuovo. Nel 2014 la Turchia di Erdogan assistette per mesi, senza muovere un dito, alla partenza di enormi bastimenti con a bordo migliaia di migranti salpati dai porti turchi e diretti verso l'Italia. E non ha mai esercitato alcuna pressione su quella coalizione islamista al potere a Tripoli- di cui si dichiara madrina e protettrice - per indurla bloccare i lucrosi traffico di umani in partenza da Tripoli e dintorni. In fondo perché farlo? Le rotte della Libia e dell'Egeo contribuiscono, alla fine, a trasferire in Europa nuovi fedeli islamici che la Fratellanza Musulmana, in cui Erdogan si riconosce, potrà utilizzare per indebolire dall'interno la fortezza Europa.

 Eppure nessuno sembra accorgersene. Come nessuno sembra più ricordarsi dei 5000 militanti islamisti partiti dall'Europea e transitati dalle frontiere turche per raggiungere - sotto gli occhi compiacenti di Ankara - le basi dello Stato Islamico in Iraq e Siria. Basi da cui possono ora agevolmente rientrare sfruttando la nuova rotta dall'Egeo. Pronti, dopo un passaggio a Kos o Lesbos, ad operare e colpire nel cuore di un'Europa sempre più distratta, imbelle ed indifferente.

Il Foglio-Carlo Panella: " Pax Curda "

 Roma. Abdullah Oçalan ha preso una netta (e clamorosa) distanza dal suo Pkk, impegnato in una offensiva di attentati contro la Turchia, che ha di fatto sconfessata. Ha rinsaldato il suo asse con i curdi iracheni e ha rilanciato la sua proposta di pacificazione al presidente turco Erdogan. Il tutto, secondo gli abituali moduli criptici del linguaggio e della tecnica politica anatolica. Prigioniero a vita nel carcere dell’isola di Imrali, una sorta di Alcatraz nel Bosforo, Oçalan, col sicuro assenso dei servizi segreti turchi, ha inviato due giorni fa il suo fidatissimo plenipotenziario Amin Penjweni a Erbil per concordare col premier curdo Nechirvan Barzani una linea comune a fronte di un Pkk che palesemente non ne riconosce più la leadership ed è sotto il comando settario e avventurista di Fehman Huseyin.

 Le dichiarazioni rese alla stampa dal premier curdo iracheno (ovviamente il fiduciario di Oçalan non ha parlato) danno il senso della manovra in atto e sono di fatto di condanna netta dell’offensiva del Pkk, sino al punto che Barzani, come già suo padre Masud, presidente del Kurdistan, non ha condannato affatto i bombardamenti aerei turchi dei santuari del Pkk (che pure colpiscono il suo Kurdistan), ma si è limitato a deprecare le uccisioni dei civili curdi. Non solo, Barzani ha nettamente attribuito al solo Pkk la responsabilità della fine della tregua e quindi la colpa della ripresa della guerra con la Turchia: “Purtroppo, i bombardamenti turchi sono conseguenza della decisione provocatoria del presidente della Comunità del Kurdistan (KCK, l’organo amministrativo creato dal Pkk) di dichiarare terminato il processo di cessate il fuoco e di pace tra la Turchia e il PKK”.
Il tutto in un contesto e in una successione dei fatti inequivocabili.
La dichiarazione di ripresa unilaterale delle ostilità contro la Turchia è infatti avvenuta dopo che il Pkk ha incredibilmente attribuito al governo di Ankara la responsabilità dell’attentato di Suruç (32 giovani volontari curdo turchi dilaniati) – messo in atto però da un kamikaze dell’Isis – e invece di menare un’offensiva contro l’Isis in Siria, ha iniziato a uccidere poliziotti e soldati turchi. Una strategia avventurista frontalmente criticata nei giorni scorsi da Masud Barzani. Nechirvan Barzani ha poi duramente condannato ancora una volta il demenziale attentato del Pkk contro l’oleodotto che trasporta il petrolio di Kirkuk in Turchia. Attentato sul suolo del Kurdistan iracheno che colpisce gravemente le risorse economiche del Kurdistan iracheno, unico presidio affidabile contro l’Isis. Episodio marginale, ma che rispecchia bene l’avventurismo di matrice marxista leninista del Pkk, che considera come avversari anche i curdi iracheni, e che si è impiantato con le sue basi militari sui monti Qandil, tentando di allargarsi anche in altre zone, tanto da aver spinto il governo del Kurdistan iracheno a costruire un lungo muro (ufficialmente destinato a bloccare i contrabbandieri) per isolare questa fastidiosa e turbolenta enclave. Questa netta presa di distanza di Barzani – chiaramente concordata con l’emissario di Oçalan – mira a un obiettivo evidente, enucleato dal premier curdo iracheno: “Riprendere gli sforzi in modo che entrambe le parti tornino al tavolo dei negoziati e riprendano il processo di pace, da dove è stato interrotto. Faremo di tutto per fermare la guerra tra Turchia e Pkk”.
Dunque, le analisi che provengono dal governo curdo, che rappresenta l’unico presidio democratico e affidabile della Mesopotamia, nonché unico bastione contro l’Isis, smentiscono platealmente e addirittura ribaltano la versione che impera sui media occidentali politically correct, che attribuiscono la responsabilità della ripresa di questa sanguinaria guerra al “perfido” Tayyp Erdogan. Naturalmente – e non per la prima volta – l’avventurismo militarista del Pkk, da cui da anni ha preso nette distanze lo stesso Oçalan, non è affatto sgradito al presidente turco. Una guerra a bassa intensità contro il Pkk gli torna oggi estremamente utile per tentare una coalizione col reazionario e iper nazionalista Mhp e soprattutto col laico Chp (che ha sempre avversato per un dogmatico kemalismo la road map di pacificazione col Pkk, fortemente voluta sino a tre settimane fa da Erdogan). Ma gli torna ancor più utile nel caso che questa coalizione non si faccia e che quindi la Turchia torni alle urne a settembre. Presentarsi all’elettorato col paese in guerra contro il Pkk e scosso dagli attentati è indubbiamente uno scenario gradito nel faraonico palazzo presidenziale di Ankara. Anche perché Erdogan ha appena avuto la riprova che Oçalan – e soprattutto il governo del Kurdistan iracheno – sono di fatto più vicini alle sue posizioni che a quelle dei dirigenti avventuristi del Pkk.

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8 agosto 2015

Gente di Dubai..

 Ragazzo che guida e messaggia con accanto il suo animale domestico.
Strani felini si spenzolano dal finestrino
La gente è sempre pronta a portare a passeggio il proprio animaletto

Uno spuntino esotico per i cuccioli

Un ingorgo di super-auto

soluzioni intelligenti per gli ingorghi
animali in barca

Se non volete che il parcheggiatore metta le mani sulla vostra auto
Moto veramente potenti

Lamborghini auto della polizia


Scherzi a parte i poliziotti si automultano
pirata della strada
Larga veramente il doppio !


diportisti del remo in piedi 

Bizzarri equilibrismi

Cellulari che costano più di casa tua
la macchinetta automatica sputaoro

Una stanza da bagno
una camera da letto così
cucina esotica
Distributore di cibo gratuito per i poveri
Ultimo grido della moda

Scontri culturali

vista mozzafiato 1
scherzi di Dubai
Vista di Dubai 2



























29 luglio 2015

Cosa succede quando un cittadino libanese incontra due soldati israeliani in servizio ?


Fabian Maamari, un cittadino libanese che vive in Israele con il suo ragazzo, condivide la sua storia:

"Ieri, ho visitato il Mar Morto (di nuovo). Adoro questo posto..seriamente è un così affascinante
" luogo-da-visitare " in Israele. Improvvisamente vedo 2 soldati israeliani andare in giro assicurandosi che tutto è OK. Questa è stato la mia prima volta in assoluto che ho visto come vivono e come sono in servizio. All'inizio ero un po 'nervoso perché, come libanese è nella mia natura temerli, a causa di tutte le cose brutte che ho sentito su di loro nella mia vita ... Però siccome sono curioso e amo sperimentare di persona, ho deciso di rendere questa situazione un po 'interessante, così mi sono messo un po' più vicino a loro. Dopo un po 'abbiamo preso contatto.

Soldato: Shalom, Kullo bseder?
Me: Mi dispiace, non parlo ebraico.
Soldato: Ahh ok, di dove sei?
...
Me: Libano (sorriso)
Soldato: Wow! E ora sei qui! è incredibile. In realtà sono stato in Libano molti molti anni fa al campo. E' un bel paese! Di che parte in Libano è la tua famiglia?

..e improvvisamente tutti i miei timori c'erano più. Potevo aspettarmi che questo invece di una pesante "controllo passaporti" mi coinvolgesse in una conversazione amichevole sulla bellezza del Libano ?! Anche se io avrei capito se avessero  voluto controllare il mio passaporto, a causa della guerra e la situazione instabile tra noi in questo momento. Ma non lo ha fatto...

Allora, che succede? Che cosa hanno fatto alla fine? Beh, ogni israeliano è tenuto a prestare servizio nell'esercito e le persone che ci lavorano in realtà non guadagnano un sacco di soldi. Quindi la famiglia di Avi [il fidanzato israeliano dell'autore] ha deciso di invitarci a sederci assieme a cenare! Siamo stati benissimo, a parlare e ridere insieme. E bisogna  tenere a mente che loro non mi hanno mai fatto sentire come se  mi "mettessero in discussione come straniero". Mi hanno trattato come loro pari. Tutto era normale senza tensione tra tutti. Incredibile esperienza.
Beh ok, UNA VOLTA uno di loro mi ha chiesto da quanto tempo Avi è stato in Israele e quello che sto facendo qui. Così gli ho detto di me e la storia di Avi, lui è israeliano, io sono ecc libanese e gli è davvero piaciuto e lo hanno definito "veramente rivoluzionario", e hanno persino detto che hanno un sacco di gay nell'esercito.

Ho avuto modo di conoscere gli uomini dentro gli abiti, ascoltare le loro storie di vita e ... bene era semplicemente magico. Ero ancora un po' nervoso a parlare con loro, ma questa speciale sensazione così confortevole che ho avuto quando hanno parlato di me, alla fine ha preso il sopravvento. E' stato tutto così caldo e accogliente!

Questa giornata è stata così speciale per me e anche se questo potrebbe non sembrare una grande cosa per alcune persone, per me significa molto ... vorrei davvero che tante  persone avessero avuto la possibilità di sperimentare quello che io ho vissuto oggi. Ho visto la luce in qualcosa in cui un sacco di gente vede solo buio! ...
 Fate del vostro meglio e cercate di non giudicare ciò che sta accadendo nella vita in base a ciò che si vede o si sente nei media. Le cose non sono sempre come appaiono. Ci sono 2 lati di ogni storia. A volte anche 3 - Uno, l'altra, e la verità "!



Leggi la storia ancora più in dettaglio qui: http://on.fb.me/1OOKwac

3 dicembre 2014

Chi sono gli 'attivisti' occidentali che collaborano con i terroristi palestinesi

Dalla STAMPA di ieri, 02/12/2014, a pag. 17, con il titolo "Noi occidentali a Ramallah sfidiamo i fucili israeliani", l'intervista di Maurizio Molinari a cosiddetti "attivisti" occidentali, collaboratori delle frange più estreme del terrorismo palestinese.
 Dal suo pezzo i lettori possono conoscere i processi mentali che portano all'odio contro Israele.
 Ringrazio Molinari per farceli conoscere.

Attivisti dell'ISM: attivisti ? pacificisti ?
In Cisgiordania c'è una «legione straniera» di attivisti che ogni giorno si batte a fianco dei palestinesi contro gli israeliani e per incontrarla siamo entrati nella stanza numero 14 al primo piano dell'edificio «Kuwait» dell'ospedale di Ramallah dove è ricoverato l'agronomo italiano di 30 anni ferito al petto da un soldato durante gli scontri avvenuti venerdì a Kafr Qaddum, vicino Nablus.

Fra bandiere palestinesi, vasi di fiori e strumenti medici l'italiano che si fa chiamare Patrick Corsi è seduto assieme a Sophie, 31 anni di Copenhagen, Malia, 21 anni di Berlino e Karyn, 28 anni dello Stato di New York. Fanno parte di uno dei gruppi dell'«International Solidarity Movement» (Ism) ovvero la spina dorsale di «un centinaio di attivisti internazionali di più organizzazioni giunti qui per aiutare i palestinesi a far diminuire la violenza israeliana» spiega l'italiano.
Ascoltarli significa entrare nell'universo in cui vive questa pattuglia di attivisti accomunati dalla convinzione che il conflitto in Medio Oriente abbia come unico responsabile Israele: ciò che dicono e descrivono esprime una difesa estrema delle tesi palestinesi che si spinge fino a contestare la soluzione dei due Stati.

Anzitutto ognuno di loro premette di dare generalità false «perché altrimenti gli israeliani ci metterebbero in una lista nera e non potremmo più tornare dopo la scadenza del visto di 90 giorni» dice Malia. Patrick, con la maglietta «Palestina nel mio cuore» in realtà svelerà presto il vero nome perché vuole fare causa all'esercito israeliano per il proiettile che lo ha colpito nel petto: «L'azione legale vorrà punire il soldato e l'esercito per quanto avvenuto, e si svolgerà nella terra del 1948». II termine «terra del 1948» viene adoperato al posto di «Israele», contestandone la legittimità anche nel vocabolario.

«In Danimarca avevo molte amiche ebree e israeliane, amavo Tel Aviv - racconta Sophie - ma poi c'è stato il massacro di Gaza, sono voluta venire oltre il Muro e ora non voglio più tornare nella terra del 1948». Patrick ritiene che «anche Tel Aviv all'origine era un insediamento illegale», imputa «ai sionisti, e non agli ebrei, di aver progettato e realizzato il furto della terra palestinese» e crede che «la soluzione di questo conflitto arriverà quando i sionisti ammetteranno tale colpa e lasceranno ai palestinesi la scelta se vivere assieme oppure farli tornare negli Stati di provenienza».

In queste parole la negazione del diritto all'esistenza di Israele diventa palese. Anche Karyn, Malia e Sophie non credono nella soluzione dei due Stati - Israele e Palestina, secondo la formula di Oslo 1993 - per molteplici motivazioni: dalla «costruzione di insediamenti che sono città coloniali impossibili da smantellare» alla «necessità di vivere assieme, condividendo le stesse scuole anziché separarsi». Tali opinioni sono frutto di settimane di vita con i palestinesi. «Sono stata alle esequie di un bambino di 15 anni ucciso perché aveva lanciato una molotov contro dei soldati e ho assistito alla carica militare contro il corteo funebre» ricorda Karyn. «Ho incontrato la famiglia del palestinese che ha accoltellato un soldato a Tel Aviv ed ho visto la sua casa distrutta dai soldati, è umanità questa?» si chiede Sophie. «Sono stata nell'aula del tribunale militare di Salam dove ad un 17enne è stata rinnovata la detenzione amministrativa senza concedergli di parlare» aggiunge Malia, trattenendo a stento la commozione. «Sono andato a raccogliere le olive con i palestinesi perché gli ulivi sono la loro risorsa più importante ma i militari gli consentono di prenderle solo 2-3 giorni l'anno» afferma Patrick.

Sono esempi di una militanza che si declina in una miriade di interventi - dall'accompagnare i pastori nei terreni militari a dormire nelle case destinate alla demolizione fino a fotografare i soldati sui tetti delle case - per «diminuire la violenza contro i palestinesi» con azioni, assicura Patrick, «non violente, concordate fra noi e guidati da palestinesi». Anche un'altra italiana è stata ferita: Giulia, siciliana, un mese fa a Qalandya.

Per questi attivisti gli eroi sono Rachel Collie, Tom Hurndall e Vittorio Arrigoni ovvero i «caduti di Ism a Gaza»: i primi due morti nel 2003 e 2004 in incidenti con gli israeliani, il terzo ucciso nel 2011 dai salafiti palestinesi. Ad accomunare questi giovani è tanto la convinzione di «aiutare i palestinesi a far conoscere al mondo le loro sofferenze» quanto un'interpretazione degli attentati anti-israeliani, come l'assalto alla sinagoga di Har Nof in cui sono stati uccisi quattro rabbini, che Patrick riassume così nell'assenso generale: «Chi semina violenza, raccoglie violenza». Ovvero, nella «terra del 48» c'è il nemico.

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1 dicembre 2014

Negozio occidentale e bazar iraniano

da Informazione Corretta  un commento di Mordechai Kedar

Per ottenere ciò che si desidera in un bazar iraniano si devono seguire certe regole: se non sappiamo neppure che esistono, saremo di sicuro truffati.
Nel mondo di oggi esistono due tipi di mercati: il negozio occidentale e il bazar orientale. In Occidente, i negozi hanno prezzi fissi per le merci, la legge impone che il costo sia visibile su ogni articolo. Se si vuole veramente acquistare l’oggetto in vendita, il prezzo è uguale per tutti. Gli occidentali sono abituati a questo tipo di acquisti, è il motivo per cui molti cercano i negozi con i prezzi più convenienti.
Il prezzo non deriva dalla personalità del venditore o dall'identità dell’acquirente. Non si vedrà mai nessuno discutere su un prezzo in un negozio negli Stati Uniti, e chiunque lo facesse, sarebbe considerato un alieno, appartenente a un'altra cultura.
Al contrario, in Medio Oriente, la cultura del bazar è la regola e il rapporto tra acquirente e venditore si basa su norme culturali totalmente differenti: quanto il venditore ha proprio bisogno dei soldi,  quanto l'acquirente desidera la merce; quando il venditore teme che il compratore possa andarsene altrove; quando altri venditori stanno offrendo lo stesso articolo a un prezzo inferiore, quando l'acquirente può fare a meno della merce, quando ci sono altri commercianti con oggetti simili e l'acquirente potrebbe facilmente rivolgersi a loro. In questi casi  il prezzo scende.

Se il venditore non ha bisogno di soldi, e l'acquirente vuole davvero la merce e soprattutto se dice che è disposto a pagare qualunque prezzo per averla, in questi casi il prezzo sarà alto. Queste motivazioni hanno un ruolo centrale nel determinare il prezzo delle merci.

Immagine in linea con il testo

Nella cultura del bazar mediorientale pesa un altro fattore, molto importante, quello personale. L'acquirente e il venditore vogliono vedersi, toccarsi, parlarsi, ascoltarsi.
Il contatto interpersonale, il sorriso, la stretta di mano, le parole di benvenuto, le domande e le risposte, la famigliarità, il linguaggio del corpo, sono parti integranti delle trattative sul prezzo. Un accordo non è solo un atto economico, ma un evento, quasi come un matrimonio.
 Nulla ha a che fare con l'economia: se il venditore non è simpatico all'acquirente, perché lè, per esempio, ebreo, cristiano, sciita, sunnita, curdo, persiano, turco o membro di un qualsiasi gruppo che non piace al cliente, non si compra da lui, anche se l'articolo è in pratica gratuito.

Un occidentale, un turista, che entri in un bazar mediorientale, resta inebriato dagli odori, disorientato, stordito dai colori, eccitato dalla musica, infastidito dalla folla, e alla fine compra una cosa qualsiasi perché i prezzi sono bassi, solo per scoprire quella stessa notte, nel suo hotel, di averla strapagata, che la vernice si sta staccando e che l’oggetto sta andando in pezzi o è deteriorato.
Inoltre, scopre che è fatto in Cina e che avrebbe potuto acquistarlo su internet per la metà di quel che ha pagato.
Perché è successo tutto questo? Perché il turista non conosceva le regole del bazar e i commercianti se n’erano accorti a un miglio di distanza. A loro non importa di ingannarlo perché lui è un cristiano, un americano, uno straniero che paga quello che gli si chiede e non conosce le regole. Sanno anche che fa parte di un gruppo di turisti con un tempo limitato per fare acquisti nel bazar e che quindi corre da un banco all’altro, al fine di riuscire a comprare più oggetti possibili. Non contratta perché non ne ha il tempo e perché non è abituato a farlo a casa sua. Pensa che sia umiliante 

I negoziati che si stanno svolgendo nell’arco degli ultimi sedici anni tra l'Iran e l'Occidente, sono un perfetto esempio del baratro culturale fra i negoziatori occidentali e le loro controparti iraniane, esperti di negoziazione nel bazar, dove il nascondere informazioni e l’inganno sono i principi fondamentali della loro cultura sciita. 

Le differenze tra le abitudini di un turista e la cultura del bazar persiano hanno portato all’amaro risultato che ha dato agli iraniani quello di cui avevano più bisogno: il tempo. Hanno pagato il prezzo di un paio di sanzioni che ora vedono scomparire. E, ancora più importante,  hanno concesso pochissimo in termini di limitazione dei loro piani militari nucleari.
Gli iraniani hanno giocato dall’inizio alla fine il ruolo del venditore, quello che non ha bisogno di liberarsi della propria merce, non ha fretta. Hanno venduto più volte merci avariate sotto forma di accordi che non mantengono, e l'Occidente non è giunto all’ovvia conclusione: che sono ciarlatani professionali, bugiardi incalliti e brillanti prevaricatori. 
Il motivo è che sono gli unici venditori sul mercato, almeno così sembra ai leader occidentali,  si  deve raggiungere un accordo con l'Iran ad ogni costo.
Gli iraniani non temono che qualcun altro possa prendere il loro posto, perché dovrebbero comportarsi in modo diverso? L'Occidente ha svolto il ruolo del turista ottuso che va a far compere nel bazar iraniano; i leader delle potenze mondiali hanno inviato segnali di preoccupazione all’avvicinarsi delle scadenze, perché dovevano tornare dai loro elettori con la prova di aver raggiunto un accordo di pace “secondo la nostra tempistica”.
Gli iraniani  lo hanno percepito e hanno alzato il prezzo, abbassato la qualità e venduto agli occidentali degli accordi che non avevano alcuna intenzione di mantenere.
Hanno indebolito i negoziatori, con una tattica ben nota: hanno offerto qualcosa, una sorta di concessione che l'Occidente ha colto al volo solo per scoprire, dopo, che non aveva niente a che fare con la questione che si stava trattando.

Hanno contato di più i sorrisi sul volto di Rouhani, che gli davano la possibilità di mostrare che lui non è Ahmadinejad, che è un uomo nuovo, bello, gentile e non gli si può assolutamente indirizzare contro nulla, perché lui non è un estremista. Lui è uno di noi, perché parla inglese, naviga sul web e utilizza uno smartphone.
Zarif ha continuato a dare questa impressione. Il bazar iraniano è stato un successo clamoroso, e il turista occidentale - che non conosce le regole - ha perso ancora una volta: ha pagato il prezzo di concedere agli iraniani più tempo e non ha ottenuto la merce che voleva, perché non ha un accordo e non è certo che ne otterrà mai uno, dato che l'Iran, con altri sette mesi, prima di allora avrà la bomba.

L'Occidente non capisce il fatto più ovvio: c'è solo una cosa che può fare pressione sull'Iran e che l'Occidente non è disposto a fare, minacciare cioè la prosecuzione del dominio degli Ayatollah. L'Occidente non ha mai usato quella carta per ottenere il suo scopo, quindi perché gli Ayatollah dovrebbero pagare per un accordo che non vogliono?

La cosa peggiore è che ci sono stati quelli che avevano avvertito le potenze occidentali che sarebbero cadute nella fossa del bazar iraniano.
Uno di loro era Benyamin Netanyahu, ancor prima di diventare Primo Ministro di Israele. Harold Rhode lo ha scritto in modo chiaro e così ha fatto l'autore di questo articolo.
Il problema di chi ha negoziato con gli iraniani è aver creduto di sapere come si  comportano gli iraniani, hanno creduto alle loro  bugie e agli inganni di consumati professionisti.

La Storia purtroppo metterà in ridicolo come un paese ribelle e testardo abbia potuto gettare fumo negli occhi a negoziatori intelligenti, ben educati e potenti, che sono stati psicologicamente incapaci di usare il loro potere e sono rimasti irretiti nella trappola del bazar iraniano, dove solo chi ne conosce le regole può sopravvivere.


 Mordechai Kedar è lettore di arabo e islam all' Università di Bar Ilan a Tel Aviv. Nella stessa università è direttore del Centro Sudi (in formazione) su Medio Oriente e Islam. E' studioso di ideologia, politica e movimenti islamici dei paesi arabi, Siria in particolare, e analista dei media arabi

17 novembre 2014

I TERRORISTI UCCIDONO ma l'UE VUOLE SANZIONARE ISRAELE



Israele è ancora e nuovamente preda degli attivisti del terrore.
Ammazzati per mano di terroristi palestinesi in strada e alle fermate degli autobus i suoi cittadini muoiono. 
I cittadini israeliani ebrei sono aggrediti in auto e usando le auto, oppure con i coltelli, i cacciavite, per ucciderli. 

Ma la violenza contro la gente ebrea si manifesta anche in Europa: ad Anversa sabato un 30enne belga è stato accoltellato.

In tale situazione sarebbe logico pensare che l'Unione Europea abbia condannato fermamente e a gran voce gli attentati terroristici, riconoscendo le gravissime responsabilità di Abu Mazen e di Ismail Hanyeh, leader del West Bank e di Gaza, coloro che continuano a incitare il popolo allo scontro esaltando i "martiri" (*).


Invece nulla, solo un comunicato alla buona del portavoce di Federica Mogherini, troppo impegnata dal suo nuovissimo incarico di lady Pesc per chiedere di smetterla con le violenze ma tantomeno per minacciare ai leader palestinesi il blocco dei fondi UE nel caso scorresse ancora sangue nelle vie di Tel Aviv e di Gerusalemme.

Anzi, due giorni fa l'Unione Europea, in un documento indirizzato a tutti i 28 Stati membri, ha minacciato che imporrà allo Stato ebraico nuove sanzioni nel caso non smetta immediatamente di costruire abitazioni nei quartieri ebraici di Gerusalemme est. Queste aree vengono definite erroneamente "colonie", mentre in realtà sono solo zone periferiche della capitale di Israele, stato sovrano ( ancorché Hamas e Abu Mazen oltre l'Iran si rifiuti di riconoscerne l'esistenza) a cui nessuno deve né può imporre dove costruire e dove no. Insomma oltre il danno la beffa.


Invece di sanzioni per la vecchia e nuova escalation di violenza, come sarebbe logico, l'UE destina fior di milioni di finanziamenti ai terroristi di Hamas per ricostruire Gaza, distrutta da una guerra provocata dagli stessi terroristi.

Così ancora una volta ( già dai tempi di Arafat) una considerevole quantità di denaro fresco e copioso rastrellato dalle tasche dei cittadini UE viene riversato nelle tasche di Abu Mazen e della sua amministrazione corrotta, di Ismail Hanyeh, i quali tengono il popolo in miseria per prendersi prebende principesche e stipendiare i terroristi, che poi finiscono negli ospedali e nelle carceri israeliane.

Ovvero l'UE premia e non sanziona neanche moralmente gente che si affanna ogni giorno a propagandare quella cultura della violenza che dovrebbe teoricamente esser considerata sideralmente lontana dalla cultura europea ed occidentale alla base del concetto stesso di EUROPA.

Stoccaggio delle pietre nella moschea (in alto) per la sceneggiata del venerdi (in basso)

(*)
il cacciavite usato per uccidere 
  
È passata solo qualche ora dal tentato omicidio commesso con un cacciavite che i media palestinesi ne fanno la promozione pubblicitaria  per stimolare altri attacchi contro gli israeliani.

Hamas ha benedetto il "gesto eroico" perchè "è la naturale conseguenza dei crimini israeliani".
Da qui, l'evidente continuità di pensiero e d'azione tra Fatah e Hamas contro Israele.

L'università palestinese consegna una onoreficienza alla famiglia di Abed a-Rahman a-Shaludi, ucciso dopo aver compiuto il suo "atto eroico" lo scorso ottobre alla fermata del tram di Gerusalemme nel quale morirono una neonata di tre mesi e una ragazza di 22 anni.

8 novembre 2014

Solo 17 giorni per fermare la corsa dell'Iran al nucleare

Il nostro incubo peggiore potrebbe essere già qui.

 Il mondo è a 17 giorni dal  termine per i negoziati con l'Iran sul nucleare - e un accordo che non fermi in modo davvero unitario  l'armamento nucleare iraniano potrebbe mettere la stessa esistenza di Israele in pericolo.
 
Firma la  petizione su www.nobombforiran.com
Conosci il pericolo che ci troviamo di fronte.
 
L'Iran sta facendo tutto il possibile per garantirsi un accordo che lo lasci con la capacità di costruire armi nucleari - armi che potrebbe usare per sé o trasferire alla sua rete terroristica globale. Solo la pressione pubblica può impedire un accordo che metterebbe in pericolo milioni di persone.
 
Il tempo stringe e abbiamo bisogno del vostro aiuto.
 
In questo momento, aiutateci a condividere la petizione per fermare le mortifere ambizioni nucleari dell'Iran .
 
Nel corso dell'ultimo anno, TIP ha intrapreso una campagna per educare il pubblico sui pericoli di un Iran nucleare. Abbiamo giornalisti collegati con i massimi esperti Iran - abbiamo potenziato  www.NoBombForIran.com con le ultime notizie, la grafica, gli annunci digitali di alto profilo anche a pagamento e lo spazio pubblicitario per ribadire la grave minaccia.
 Questo mese, stiamo andando in overdrive nella battaglia contro un Iran nucleare. Ma tutto il lavoro di stampa, di sensibilizzazione e anche una campagna digitale non possono aiutare senza l'azione personale, la tua.
 
E' ora di agire ! Condividete la petizione per fare pressione su Washington e ottenere un accordo difficile che fermi il percorso nucleare iraniano.
 
Il nostro CEO Josh Block sarà presente a Vienna per i colloqui sul nucleare a fine mese. Forniremo informazioni privilegiate up-to-the-minute sui nostri account Facebook e Twitter nel corso delle prossime settimane.
 
Aiutateci affinché possiamo fare tutto il possibile in questo mese critico. Questo mese si rivelerà un punto di svolta nella storia del mondo. Se l'Iran è lasciato libero nel suo percorso per costruire una bomba nucleare, la stessa sicurezza dei popoli liberi in tutto il mondo sarà in pericolo.
 
Condividere la nostra petizione www.nobombforiran.com per fermare le mortali ambizioni nucleari dell'Iran.
 
Si può fare la differenza.
 Grazie per il vostro supporto.
 Il Progetto Israele
 
 PS. Vi suggeriamo di mantenere la pressione su Washington

 
Abbiamo solo 17 giorni per fermare la corsa dell'Iran al nucleare
Click qui per condividere la petizione 
 
 

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Our worst nightmare may be here. The world is 17 days from the Iran nuclear negotiations deadline — and a deal that doesn’t truly stop Iran’s nuclear weapons drive could put Israel’s very existence in jeopardy.
 
You signed our petition at andwww.nobombforiran.com. You know the danger we are facing.
 
Iran is doing everything it can to secure a deal that leaves it with the capacity to build nuclear weapons — weapons it could use itself or transfer to its global terror network. Only public pressure can prevent a deal that would put millions in jeopardy.
 
Time is running out and we need your help.
 
 
Over the last year, TIP has waged a campaign to educate the public on the dangers of a nuclear Iran. We’ve connected reporters with top Iran experts — invigorated www.NoBombForIran.comwith the latest news and graphics — and even bought high-profile digital ads and billboard space to hammer home the grave threat.
 
This month, we’re going into overdrive in the battle against a nuclear Iran. But all the press work, outreach, and digital campaigning may not help if you don’t act, too.
 
 
Our CEO Josh Block will be on the ground in Vienna for the nuclear talks later this month. We will be providing up-to-the-minute insider information on our Facebook and Twitter accounts throughout the next few weeks.
 
Help us as we do everything we can in this critical month. This month will prove to be a turning point in world history. If Iran is left with a path to build a nuclear bomb, the very safety of free peoples across the globe will be in danger.
 
 
You can make a difference.
 
Thank you for your support.
 
The Israel Project
 
 
 
 
PS. Help TIP keep the pressure on Washington

4 novembre 2014

Tg News Watch: parte il 31 ottobre la nuova rubrica a cura di Deborah Fait su Informazione Corretta

30.10.2014Tg News Watch: parte il 31 ottobre la nuova rubrica a cura di Deborah Fait
Contro la disinformazione e la menzogna omissiva su Israele in telegiornali e trasmissioni televisive

Testata: Informazione Corretta
Data: 30 ottobre 2014
Pagina: 1
Autore: La redazione
Titolo: «Tg News Watch: parte il 31 ottobre la nuova rubrica a cura di Deborah Fait»
Tg News Watch: il 31 ottobre è partita la nuova rubrica a cura di Deborah FaitContro la disinformazione e la menzogna omissiva su Israele in telegiornali e trasmissioni televisive
A partire dal 31/10/2014, inizia su Informazione Corretta la nuova rubrica a cura di Deborah Fait "Tg News Watch".
La prima puntata sarà dedicata alla trasmissione "Palestina. Storia di una terra", andata in onda su RAI STORIA sabato 18/10/2014 e sabato 25/10/2014.
Deborah Fait fa una
analisi critica della trasmissione, denunciando la disinformazione e la menzogna omissiva con cui viene colpita Israele.

http://www.informazionecorretta.it/main.php?sez=90

13 settembre 2014

Presidente Obama, tre giorni fa: Come stiamo rispondendo alla minaccia dell'ISIL

The White House, Washington



Buonasera,

Ho appena informato il mio paese su ciò che gli Stati Uniti faranno con i nostri amici e alleati per sgretolare e distruggere il gruppo terroristico noto come ISIL.

Cerchiamo di essere chiari:  questo gruppo può definirsi lo "Stato islamico", ma non è affatto "islamico". Nessuna religione giustifica l'uccisione di innocenti, e la stragrande maggioranza delle vittime dell' ISIL è stata musulmana. Non è neppure uno "stato". Non è riconosciuto da alcun governo, e neanche da parte del popolo che tiene in suo potere.

Questo non è altro che un'organizzazione terroristica senza altra prospettiva reale o obbiettivo se non quello di massacrare tutti coloro che non sono come loro vogliono. Anche se non abbiamo ancora individuato una specifica strategia contro la nostra Patria, questi terroristi hanno comunque  minacciato l'America e i nostri alleati. E gli Stati Uniti si opporranno a questa minaccia con forza e determinazione.

 Il nostro esercito ha condotto già con successo più di 150 attacchi aerei  negli ultimi mesi contro obiettivi ISIL in Iraq -  attacchi che hanno protetto il personale e le strutture americane e ucciso centinaia di combattenti ISIL, contribuendo a salvare la vita di migliaia di uomini innocenti, donne, e bambini.

Procedendo, il nostro obiettivo è chiaro: noi vogliamo mettere in crisi e distruggere l' ISIL attraverso una strategia antiterrorismo portata avanti globalmente .

Ecco quale strategia ci proponiamo di attuare.

In primo luogo, condurremo una campagna sistematica di attacchi aerei contro questi terroristi. Lavorando a fianco con il governo iracheno,  i nostri sforzi per proteggere il nostro popolo andranno oltre colpendo gli obiettivi ISIL attraverso gli attacchi portati dalle forze irachene. E noi continueremo a dare la caccia ai terroristi che minacciano il nostro paese, sia in Iraq o in Siria. Impareranno ciò che i leader di altre organizzazioni terroristiche hanno già imparato: Se minacci l'America, non riuscirai a trovare alcun rifugio sicuro.

In secondo luogo, aumenteremo il nostro sostegno alle forze che combattono questi terroristi sul terreno. Invieremo in Iraq altri 475 membri in servizio  per sostenere le forze di sicurezza irachene e curde. Queste forze americane non avranno una missione di combattimento. Ma essi sono necessari per sostenere le forze irachene e curde con la formazione, l'intelligence, e le attrezzature - e stasera, ho di nuovo chiamato il Congresso perché dia ai nostri militari le autorità e le risorse aggiuntive di cui ha bisogno per addestrare ed equipaggiare i combattenti dell'opposizione siriana.

In terzo luogo, lavorando con i nostri partner, continueremo ad attingere alle nostre capacità antiterrorismo sostanzialmente per prevenire gli attacchi ISIL. Lavorando con i nostri partner, si raddoppieranno i nostri sforzi per tagliare i suoi finanziamenti, contrastare la sua ideologia distorta, migliorare la nostra intelligence, rafforzare le nostre difese , e arginare il flusso di combattenti stranieri dentro e fuori del Medio Oriente.

E quarto, continueremo a fornire assistenza umanitaria ai civili innocenti sfollati da questa organizzazione terrorista. Questi includono sunniti e musulmani sciiti, che hanno sopportato il peso di questo terrore, così come decine di migliaia di cristiani e di altre minoranze religiose.

Ho l'autorità per affrontare la minaccia da ISIL. Ma credo che siamo più forti se siamo un paese in cui il Presidente e il Congresso lavorano insieme. Accolgo quindi con favore l'approvazione del Congresso per sostenere questo sforzo, al fine di mostrare al mondo che gli americani sono uniti nell'affrontare questo pericolo.

Questa missione non sarà come le guerre in Iraq e in Afghanistan. Essa non comporterà truppe da combattimento americane che combattono in terra straniera. Questo sforzo sarà un approccio costante e implacabile per eliminare terroristi che ci minacciano, pur sostenendo i nostri partner in prima linea.

Questa è leadership americana al suo meglio: ci schieriamo con le persone che lottano per la propria libertà. E noi coinvolgeremo altri paesi in nome della nostra sicurezza comune e della comune umanità.

Quando le forze americane hanno contribuito a impedire il massacro dei civili intrappolati sul monte Sinjar, ecco quello che uno di loro ha detto:

"Dobbiamo ai nostri amici americani la nostra vita. I nostri figli si ricorderanno sempre che c'è stato qualcuno che si sentiva coinvolto nella nostra lotta e ha fatto un lungo viaggio per proteggere le persone innocenti."

Questo è ciò che fa di noi gli Stati Uniti d'America. Questa è la differenza che facciamo nel mondo. E andremo avanti, la nostra sicurezza e la sicurezza in generale dipende dalla nostra volontà di fare quello che serve per difendere questa nazione, e sostenere i valori che noi difendiamo.

Grazie,

Il presidente Barack Obama

http://www.whitehouse.gov/the-press-office/2014/09/10/statement-president-isil-1

1 agosto 2014

Europistan - IDENTIKIT DEL JIHAIDISTA reportage di Barbara Schiavulli

da il Giornale.it

Sono più di tremila i ragazzi musulmani europei andati a combattere in Siria. Hanno attraversato un processo di radicalizzazione silenziosa tanto che nemmeno i genitori si sono accorti della loro trasformazione. Negli anni '80 e soprattutto '90, esistevano i reclutatori, persone particolarmente abili a capire le fragilità dei giovani e ad attrarli con i loro discorsi nelle trame del radicalismo, oggi, secondo ricercatori e psichiatri che si occupano del fenomeno, invece, il processo è indipendente e individuale. I ragazzi si estremizzano da "soli" e poi vanno in cerca di li chi può aiutare a "entrare nel giro". La radicalizzazione avviene attraverso internet, dove i ragazzi trascorrono ore ad ascoltare i discorsi di predicatori focosi e combattenti capaci di ipnotizzarli attraverso lo schermo.



Roshonara Choudhry, studentessa del King's College di Londra nel 2010 accoltellò un membro del parlamento inglese, Stephen Timms, per il suo sostegno alla guerra in Iraq. La ragazza non aveva legami con alcun gruppo organizzato, ma si radicalizzò da sola, passando intere giornate ossessivamente su internet ad ascoltare i discorsi del predicatore di al Qaeda nella Penisola Araba, Anwar al-Awlaki, ucciso due anni fa in Yemen da un drone americano.

"Tuttavia, nella maggior parte delle situazioni, la radicalizzazione avviene in piccoli gruppi", ci spiega Lorenzo Vidino, ricercatore al Center for Security Studies e lettore all'università di Zurigo - I soggetti hanno il primo contatto con l'ideologia jihadista attraverso parenti, amici o conoscenti occasionali. Inizia così un percorso interiore di ricerca e scoperta individuale condizionato da come il soggetto si relaziona all'ambiente circostante e con altri soggetti".

Di solito predicatori estremisti, veterani di vari conflitti e web master di siti jihadisti agiscono come fattori radicalizzanti, esponendo ulteriormente all'ideologia jihadista soggetti che già ne sono simpatizzanti. "La radicalizzazione jihadista in Europa è, in sostanza, un processo che avviene dal basso verso l'alto – continua Vidino che ha presentato uno studio sull'estremismo musulmano in Italia - Anche se esistono eccezioni (network europei legati agli Shaabab (Somalia), che apparentemente conducono quello che può definirsi un vero e proprio reclutamento), esistono poche indicazioni di un piano organizzato da parte di gruppi jihadisti per reclutare musulmani europei".

In Europa i profili dei jihadisti includono criminali che vivono ai margini della società così come laureati che lavorano in alcune delle più prestigiose istituzioni del continente, oppure teenager e cinquantenni, convertiti, senza alcuna conoscenza dell'islam, e musulmani con diplomi in teologia islamica, donne e uomini.

"Molti dei network jihadisti autoctoni osservati in Europa negli ultimi dodici anni dimostrano scarsi legami con le grosse moschee, non avevano, perlomeno all'inizio delle loro attività, alcuna connessione con gruppi jihadisti strutturati, e internet riveste un ruolo cruciale in tutte le loro attività, dalla radicalizzazione alla fase operativa".

Oggi vi sono migliaia di siti che disseminano la propaganda jihadista e permettono a simpatizzanti jihadisti di comunicare tra loro. Alcuni di questi siti sono gestiti direttamente da gruppi jihadisti o da soggetti legati a essi, ma negli ultimi anni si è registrata una fenomenale crescita di siti gestiti da soggetti senza alcuna connessione con essi. Il boom dei social network ha aumentato in maniera esponenziale la capacità per soggetti che non appartengono ad alcuna struttura formale, di accedere e disseminare propaganda jihadista tramite piattaforme interattive quali Facebook, Twitter, YouTube, Paltalk e Instagram. Se negli anni Novanta la maggior parte dei siti jihadisti parlava arabo o altre lingue extraeuropee, negli ultimi dieci anni sono cresciuti i siti in inglese e, in misura minore, in francese, tedesco e olandese.

Ma dall'essere interessati, dal pensarla in modo radicare a passare alla violenza il passo non è così scontato. "I percorsi che portano un aspirante jihadista alla militanza (unirsi a gruppi jihadisti all'estero) sono tre: viaggio solitario, viaggio facilitato e reclutamento".

IL VIAGGIO SOLITARIO. Il primo avviene quando una persona, indipendentemente da come si sia radicalizzata, non si avvale dell'aiuto di nessuno per entrare in contatto con al Qaeda o gruppi affiliati fuori dall'Italia. L'aspirante jihadista in questo caso lascerebbe il paese senza aver ricevuto alcun tipo di facilitazione logistica da parte di complici e stabilirebbe il contatto con il gruppo jihdista a cui cerca di unirsi senza che nessuno lo presenti o raccomandi.



La maggior parte degli esperti di terrorismo considera il viaggio solitario un'eccezione. Nella maggior parte dei casi, aspiranti jihadisti europei riescono a unirsi a gruppi jihadisti al di fuori del continente perché qualcuno ha facilitato questo processo. Tali gruppi tendono a selezionare scrupolosamente i potenziali nuovi membri per paura di infiltrazioni e sono piuttosto restii ad aprirsi a soggetti di cui non possono verificare il background. "I facilitatori sono individui che possiedono i contatti giusti con uno o più gruppi jihadisti e possono perciò garantire per gli aspiranti jihadisti europei. Spesso sono militanti di lunga esperienza che hanno combattuto in vari conflitti e stabilito solidi contatti con network sparsi per il mondo. Uomini carismatici e spesso più anziani, non "reclutano" nel senso tradizionale del termine, ma mettono in contatto i candidati europei con i gruppi all'estero. Le modalità con cui i facilitatori entrano in contatto con individui e nuclei, che in seguito mettono in contatto con i gruppi jihadisti, sono svariati. L'incontro può avvenire in moschea, in palestra, in un internet caffè o in un ristorante. Anche i vincoli sociali e di famiglia sono molto importanti, perché rinforzano il rapporto di fiducia. I facilitatori, non vanno in giro a reclutare nuovi militanti. Piuttosto è più corretto parlare di "scenari di opportunità". A meno che non optino per il viaggio solitario, gli aspiranti jihadisti europei sono in genere alla ricerca dell'aggancio giusto per recarsi all'estero per unirsi a un gruppo jihadista. Spesso lo cercano su internet, chiedendo e ricercando informazioni su chat room e forum. Ma la miglior ricerca è fatta di persona, in moschee, con una nota presenza radicale al loro interno, chiedendo a persone fidate o anche conoscenti occasionali dai noti trascorsi militanti. Il grado di coinvolgimento del facilitatore può variare. Alcuni possono limitarsi a dare consigli su come entrare nel paese o in quali posti recarsi per cercare di "agganciare" soggetti con legami con gruppi jihadisti. Ma i facilitatori possono assumere un ruolo molto più attivo, in particolare se hanno fiducia dell'aspirante jihadista. In tal caso possono fornirgli un numero di telefono del contatto giusto nel paese di destinazione, oppure una vera e propria lettera di raccomandazione da esibire alla persona giusta, oppure ancora organizzare direttamente un meeting per il soggetto con un membro del gruppo. In certi casi i facilitatori forniscono anche visti, documenti, biglietti aerei e soldi, rendendo il loro intervento simile a un vero e proprio reclutamento.

LE QUATTRO PERSONALITA' Sono quattro le personalità di chi decide di votarsi al radicalismo, persone che vogliono capire chi sono, perché sono importanti, quale ruolo hanno nel mondo. Hanno un bisogno estremo di definire se stessi e al Qaeda lo sa meglio di chiunque altro. Chi decide, secondo gli esperti, di cominciare un processo di indottrinamento, ha un filo conduttore, che non è la classe, l'età o l'istruzione, ma la ricerca di qualcosa. L'abilità di Al Qaeda è di trasformare in violenza questo bisogno.



Sono quattro le categorie in cui ricadono questi ragazzi: i bisognosi di vendetta, i bisognosi di uno Status, di una identità e di avventura. Quando un giovane uomo ha superato la fase di reclutamento e passa a quella di indottrinamento, il suo ambiente cambia drasticamente. Viene isolato e la sua opinione del mondo viene completamente alterata. Non saranno più idonei a una normale deradicalizzazione dovuta solo grazie ad una influenza positiva, perché non riusciranno neanche a percepire un messaggio diverso, né saranno in grado di avere senso critico, fondamentale in un contesto libero. Inoltre, non sono ribelli che si oppongono al loro governo unendosi a gruppi militanti o movimenti separatisti. Il desiderio di lasciare il proprio paese, li distingue e li rende particolarmente pericolosi. 

Il "bisognoso di vendetta" (30 per cento dei combattenti) cerca un modo per sfogare la sua frustrazione. Lui si percepisce come una vittima della società, nella sua logica, forze esterne causano la sua infelicità e gli impediscono di avere successo. Spesso non sa perché è così arrabbiato e cerca un motivo per esserlo. La sua rabbia può essere innescata da piccole cose, come problemi a scuola o in amore, fino a che non ce la fa più. Lo psicanalista Heinz Kohut la descrive come "rabbia narcisistica che ha bisogno di vendetta, di far diventare giusto quello che è sbagliato". Molti radicali intervistati in vari studi e ricerche, dicevano di essere arrabbiati per gli attacchi dell'occidente verso i musulmani, ma andando a fondo, si scopriva che erano soprattutto arrabbiati con membri della loro famiglia, in particolare i padri, o erano coinvolti in dispute di quartiere, prima di interessarsi ad Al Qaeda. Secondo l'esperto di cultura musulmana Marvin Zonis, le società arabe danno più rilevanza all'onore e alla dignità individuale che alla libertà individuale, e quando i principi di onore e dignità confrontano il devastante fallimento di molti stati mediorientali nell'affermarsi nel mondo, il risultato è una profonda e onnipresente umiliazione, e la rabbia diventa palpabile. Il bisogno di vendetta fa sì che un combattente straniero debba elevare la sua rabbia a tal punto da credere di poter fare qualcosa per mettere il mondo al suo posto e la propaganda di Al Qaeda fornisce un obiettivo e una direzione.



Il bisognoso di uno Status, invece, cerca di essere riconosciuto. Appartiene soprattutto a chi fa parte di una diaspora, persone che si stabiliscono in occidente. Credono che il mondo non li capisca o li apprezzi nello stesso modo in cui loro stessi si percepiscono. La frustrazione nasce dalle aspettative non realizzate che in un altro posto sarebbero invece riconosciute dalla comunità. Questo vale soprattutto per i neo immigrati in cerca di lavoro, o per gli studenti internazionali che si devono assimilarsi in un mondo che non manifesta lo stesso rispetto che avevano nei loro paesi natali. Il 25 per cento dei combattenti fa parte di questa categoria, persone che cercano di migliorare la loro presenza nella comunità o di dimostrare che esistono. L'islamofobia, il razzismo, la mancanza di fiducia dei paesi ospitanti, non fa che creare isolamento e senso di impotenza. A questo punto al Qaeda offre la leggenda dei martiri, la gloria, il rispetto che cercano.

"I bisognosi di un'identità" sono quelli che cercano posto al quale appartenere. Diversamente dai cercatori di uno Status che vogliono uscire dalla massa, questi vogliono assimilarsi in un'organizzazione definita. La forza e la stabilità di una personalità giace nella formazione di una identità soddisfacente e funzionale, e sentirsi parte di un gruppo è un bisogno fortissimo per un adolescente. Fa sì che ragazzi si uniscano a bande, a club di scacchi, a un gruppo musicale o ad al Qaeda. Queste persone hanno bisogno di una struttura, di regole e di una prospettiva che nasce dall'appartenere a un gruppo, perché appartenere li definisce nei loro ruoli, nelle loro amicizie, nella loro interazione con la società. Per loro al Qaeda, simbolo di affiliazione, è il miglior club esclusivo al quale unirsi e la maggior parte dei combattenti appartiene a questa categoria. L'ideologia di al Qaeda richiede obbedienza totale, impone ai membri come devono pensare, sentire e comportarsi. Queste regole chiare e la coerente visione del mondo affascina chi cerca un'identità perché è un semplici pacchetto dove si combina identità e ideologia. Un giovane uomo alla ricerca di una guida e di una direzione, ne trova in abbondanza con al Qaeda. Il contesto comportamentale e i principi guida forniti dall'essere affiliati al gruppo spiegano anche la cultura del suicidio e la violenza che esiste all'interno di una cellula di al Qaeda. Violenza e morte diventano la norma. Chiunque rigetti la violenza viene mandato via dal gruppo e perde i benefici che arrivano dall'appartenervici.



Gli avventurieri, infine, sono la percentuale minore dei combattenti e si aggirano intorno al 5 per cento. Hanno una motivazione precisa rispetto ai loro compagni. Loro cercano l'eccitazione, vogliono provare che sono uomini sottoponendosi a sfide difficili e avventurose. Si annoiano a casa, di solito appartengono a una classe medio alta, non hanno interesse per gli affari di famiglia o in quello che percepiscono come una vita mondana che li aspetta. Sono attratti da videogiochi violenti, dalle storie dei veterani e sono impressionati dalla propaganda efficacie di Al Qaeda, che per loro rappresenta un marchio dell'orrore che promette violenza e gloria. Di solito queste persone abbandonano il movimento quando si rendono conto che la realtà è diversa dalla fantasia o quando non si ritrovano a fare quello che speravano. Spesso viene dato loro lavoro manuale fino a che non provano di essere affidabili. Essere messi a fare il cuoco o l'autista di sicuro non colma le fantasie di un avventuriero. D'altra parte al Qaeda è inizialmente sospettosa nei confronti dei nuovi affiliati per paura di qualche infiltrazione magari dei servizi segreti stranieri.

10 luglio 2014

9 luglio 2014 - Le Forze di Difesa Israeliane mantengono il confine di Gaza aperto...

striscia di Gaza
attività di traversata ( del confine)
 mercoledì 9 luglio 2014

1.228 tonnellate di cibo 
390.000 litri di carburante 
3 camion di forniture mediche

  mentre i razzi cadono su  Israele 
le IDF ( Forze di Difesa Israeliane ) mantengono aperto il valico di frontiera di Gaza 

Forze di Difesa Israeliane 
Nonostante il fatto che 120 razzi sono stati sparati contro Israele da questa mattina da Gaza, stiamo mantenendo il valico di confine aperto per il passaggio dei beni essenziali.

10 marzo 2014

Muarizio Molinari ( la Stampa 6 marzo 2014) intervista il Custode di Terra Santa



Pochi metri dopo la Porta Nuova della Città Vecchia, sulla sinistra c’è l’entrata alla Custodia di Terra Santa ovvero la sede dei francescani guidata da Pierbattista Pizzaballa, con alle spalle 25 anni di esperienza in MedioOriente. «I cristiani in questa regione oggi hanno due scelte, possono andar via o restare - esordisce - e per chi resta la speranza può venire da quanto sta maturando in Egitto».
  Cosa sta avvenendo in Egitto che tocca ogni arabo cristiano?
«Ci troviamo davanti ad cambiamento importante nell’atteggiamento dei cristiani. Mentre prima prevaleva la richiesta di protezione da parte delle autorità ora si afferma la necessità di una piena cittadinanza. Poiché in Medio Oriente non si può parlare di laicità, è la piena cittadina la rivendicazione più avanzata in merito alla parità dei diritti. In passato da parte della comunità cristiana c’era timidezza ma ora non è più così».
 Cosa ha portato a questa svolta in Egitto?
«E’ stato decisivo il dibattito pubblico che ha coinvolto la società, e non più solo l’élite, nella discussione sulla nuova Costituzione. E’ stato un dibattito interessante che ha coinvolto i cristiani e l’Università di Al-Azhar, importante simbolo sunnita che svolge un ruolo di moderazione. Certo, si tratta di contenuti non definitivi, ma ciò che conta è il dialogo aperto sui diritti delle minoranze. Si discute per la prima volta sull’identità dello Stato. L’Egitto può essere un modello sia per storia, economia e popolazione, per l’intero mondo arabo anche se è chiaro che la situazione cambia da Paese a Paese. Basti pensare alla Siria dove la piega degli eventi è completamente opposta, drammatica». 
 Come giudica l’evoluzione del ruolo dei cristiani nella vita pubblica in Libano?
«In Libano una volta i cristiani erano un partito mentre ora sono presenti in più partiti dunque mantengono l’appartenenza religiosa ma sul fronte politico l’impegno è più vasto. Di conseguenza è cambiato completamente il rapporto con la comunità musulmana ».
  Quanto pesa la minaccia dei gruppi jihadisti? «In Medio Oriente non è in atto una lotta fra Cristianesimo e Islam ma un conflitto dentro l’Islam che coinvolge anche i cristiani. Vengono distrutte anche moschee, non solo chiese. Al Qaeda, i salafiti e l’Isis in Siria sono un problema molto grande, da denunciare con chiarezza, ma bisogna andare oltre e cercare il dialogo con quelle realtà sunnite, come Al-Azhar in Egitto, che si stanno aprendo ad un confronto sul tema della cittadinanza».
  Perché un numero di cristiani sempre più alto abbandona i Territori palestinesi?
«Nei Territori palestinesi la realtà ha a che fare con Israele, c’è grande stanchezza nel negoziato, si assiste all’ascesa movimenti islamici perché i moderati non hanno ottenuto molto dal negoziato con Israele. In molti vanno via, musulmani e cristiani.Ma i musulmani hanno più figli. Ciò che colpisce è che ad andare via è la classe media. E’ certo vero che come dice il Vangelo i poveri sono la nostra ricchezza ma l’emigrazione del ceto medio indebolisce di molto la comunità cristiana. Alla base di questo fenomeno c’è il perdurante conflitto che non consente prospettive economiche normali. Inoltre i piccoli imprenditori cristiani sono stati travolti dalla globalizzazione, non si sono aggiornati in tempo. Senza contare che i cristiani hanno perso il ruolo avuto fino a 20-30 anni fa nel nazionalismo palestinese, oggi non c’è più nulla di tutto questo, si tratta di un cambiamento generazionale che si somma all’affermazione degli islamici».Da qui la scelta se andare o restare... «Mettendosi nei panni di chi non ha lavoro né prospettive economiche, andarsene è una scelta che capisco anche se non condivido, restare significa invece non limitarsi alla denuncia degli islamici come Al- Qaeda e Isis ma impegnarsi a dialogare con gli altri, come il modello egiziano dimostra».
 Perché fra i cristiani in Israele è in corso un dibattito intenso sull’arruolamento nelle forze armate? 
«I cristiani in Israele sono al tempo stesso cittadini israeliani, palestinesi ed hanno la fede cristiana.Sfido chiunque a trovare una soluzione. Sono una comunità in cerca di soluzioni dinamiche. Ci chiedono identità. Il dibattito sull’esercito è profondo perché fare il servizio militare qui è una scelta diversa dall’Italia, anche se si tratta di servizio civile perché si finisce per andare nei Territori».

      Maurizio Molinari


Mons. Pizzaballa: quando le domande sono pertinenti, difficile nascondere la verità

da Informazione Corretta
Quando le domande sono pertinenti, difficile evitarle. Si può sempre fare melina, parlare d'altro, ma il lettore avveduto non potrà fare a meno di accorgersene. E' quanto avviene con l'intervista di Maurizio Molinari a Mons. Pizzabala sulla STAMPA di oggi, 06/03/2014, a pag.29, con il titolo "Il nuovo dialogo in Egitto è un modello per i cristiani". Le risposte di Pizzaballa sono la conferma dell'ipocrisia della politica Vaticana in Medio Oriente. Mai affrontare il problema vero della persecuzione dei cristiani, il vero motivo del loro esodo, ma sottovalutare la responsabilità dei regimi islamici, abbarbicarsi disperatamente al cambio di regime in Egitto, come se questo fosse sufficiente per cambiare la situazione.  Il giudizio su Israele è la ripetizione di una menzogna che dura da sempre.  Molinari gli chiede perchè i cristiani fuggono dai Territori palestinesi, ma Pizzaballa si guarda bene dal rispondere, fa ricadere invece la responsabilità su Israele.

Invitiamo i nostri lettori ad esprimere la loro opinione non solo alla STAMPA, ma anche ai due quotidiani reponsabili dell'informazione ufficiale della Chiesa cattolica, OSSERVATORE ROMANO e AVVENIRE.