Le donne cambiano la Storia, cambiamo i libri di Storia.

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LE DONNE CAMBIANO LA STORIA, CAMBIAMO I LIBRI DI STORIA
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5 marzo 2024

NESSUNO TOCCHI CAINO NEWS - Anno 24 - n. 7 - 17-02-2024

Contenuti del numero:

1. LA STORIA DELLA SETTIMANA : PRIMO RISULTATO DEL GRANDE SATYAGRAHA 2024 DI NESSUNO TOCCHI CAINO
2. NEWS FLASH: NESSUNO TOCCHI CAINO, 'CON NAVALNY REGIME RUSSO MOSTRA VOLTO FEROCE E SPIETATO'
3. NEWS FLASH: IL MIO FILIPPO E ALTRI 2200: DOV’È FINITA LA NAZIONE?
4. NEWS FLASH: 20 TENTATIVI DI SUICIDIO, IL CALVARIO DI SIMONE IN UNA CELLA DOVE NON DOVREBBE STARE
5. NEWS FLASH: INDIA: 561 PRIGIONIERI NEL BRACCIO DELLA MORTE, NUMERO RECORD IN 19 ANNI
6. I SUGGERIMENTI DELLA SETTIMANA :


PRIMO RISULTATO DEL GRANDE SATYAGRAHA 2024 DI NESSUNO TOCCHI CAINO
Iniziato il 14 febbraio l’iter parlamentare della proposta di legge di Roberto Giachetti contro il sovraffollamento

Grazie a molti di voi possiamo annunciare il primo successo del Grande Satyagraha 2024 di Nessuno tocchi Caino a cui hanno dato corpo centinaia di cittadini anche detenuti.
Dal 14 febbraio la Commissione Giustizia della Camera dei deputati ha iniziato l’iter della proposta di legge di Nessuno tocchi Caino presentata da Roberto Giachetti di Italia Viva volta a ridurre il sovraffollamento carcerario. Carolina Varchi per la maggioranza e lo stesso Roberto Giachetti per l’opposizione sono stati designati relatori del provvedimento. La proposta prevede di aumentare i giorni di liberazione anticipata da 45 a 75 per quei detenuti che in passato l’abbiano già ricevuta per il loro buon comportamento. Inoltre, la proposta prevede la riforma organica dell’istituto della liberazione anticipata con l’aumento per il futuro da 45 a 60 giorni e una semplificazione della procedura di concessione.
Nel dare atto, tanto alla maggioranza quanto all’opposizione, di aver voluto riconoscere e affrontare il problema del sovraffollamento e proseguendo il dialogo con le istituzioni, Rita Bernardini, Presidente di Nessuno tocchi Caino e il deputato Roberto Giachetti, che su questo hanno condotto uno sciopero della fame giunto per entrambi al 23° giorno , hanno deciso, per il momento, di sospenderlo.
Affrontare il problema ormai non è più rinviabile anche perché dalle carceri continuano a giungere notizie drammatiche come quella dell’ennesimo suicidio verificatosi mentre scriviamo nel carcere di Lecce, il 20° dall’inizio di quest’anno. Ai 20 detenuti che si sono tolti la vita vanno aggiunti i 23 morti per cause dette naturali, semmai è possibile definire “naturale” e non criminale la morte in carcere di un essere umano. Con questo ritmo, alla fine dell’anno si registrerà la terrificante statistica di 150-160 detenuti suicidi, si rischia di superare ogni record italiano ed europeo.
Il sovraffollamento carcerario, la carenza strutturale di personale e di
risorse finanziarie, di educatori, di psicologi, di psichiatri, di lavoro, di scuola, di rapporti affettivi e di contatti umani significativi, di rispetto umano e di amore, sono le cause principali e dirette dei suicidi.
Al 31 gennaio scorso le presenze di detenuti nei 189 istituti penitenziari ha raggiunto quota 60.637 in 47.500 posti disponibili.
I detenuti aumentano a un ritmo di 470 unità al mese. Un trend che ci porterà a fine anno agli stessi livelli per i quali nel 2013 fummo condannati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con la sentenza Torreggiani per sistematici trattamenti nelle carceri contrari al senso di umanità.
Il carcere non è solo uno spazio e un tempo di privazione della libertà, è diventato un luogo – letteralmente – di pena e di dolore, di privazione di tutto, della salute fisica e psichica e anche della vita. Per questo, superata l’emergenza sovraffollamento, occorre mettere mano con intelligenza e amore a una vera riforma dell’esecuzione penale che punti sulle pene e misure alternative alla carcerazione, molto più efficaci per ridurre la recidiva e quindi anche per la sicurezza della collettività. Per questo il Grande Satyagraha 2024 di Nessuno tocchi Caino volto a far conoscere la condizione delle carceri e a ridurre e superare del tutto il danno di questo istituto anacronistico, inutile, patogeno e criminogeno, prosegue fino al raggiungimento degli obiettivi che ci siamo dati.
Aiutaci! Insieme ce la faremo!

Un caro saluto,

Sergio D’Elia – Segretario
Elisabetta Zamparutti – Tesoriere
Rita Bernardini - Presidente


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NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH

NESSUNO TOCCHI CAINO, 'CON NAVALNY REGIME RUSSO MOSTRA VOLTO FEROCE E SPIETATO'
"Non c'è nulla di naturale che può avvenire in Russia, meno che mai in un luogo di privazione della libertà: questo è un atto omicida del regime russo che ha mostrato così la sua vera faccia, un volto feroce e spietato". A dirlo all'Adnkronos Sergio D'Elia, segretario di Nessuno Tocchi Caino commentando la morte del dissidente russo Alexei NAVALNY.
"Può accadere - prosegue - che un oppositore politico decida di fare una lotta violenta nei confronti del regime e quindi mette nel conto le conseguenze di questa sua azione, ma qui invece siamo nel caso di una persona che ha condotto una lotta nonviolenta dando una prospettiva all'istanza di libertà, di diritto, di democrazia di milioni di russi. La morte di NAVALNY è la cifra della crudeltà del regime".
(Fonte: Adnkronos, 16/02/2024)


IL MIO FILIPPO E ALTRI 2200: DOV’È FINITA LA NAZIONE?
La madre di Filippo Mosca, ragazzo italiano detenuto da 10 mesi nel carcere di Port’Alba a Costanza in Romania, racconta a Nessuno tocchi Caino la drammatica vicenda di chi, avendo ragione da vendere, cerca aiuto e confida nel battito d’ali di una farfalla e i suoi effetti. Dopo l’intervista su Radio Leopolda e l’interrogazione di Roberto Giachetti al Ministro degli Esteri, i media hanno scoperto che la tremenda condizione di Ilaria Salis in Ungheria non era isolata, c’erano anche Filippo Mosca e altri italiani in Romania e gli oltre duemila nostri connazionali dispersi e abbandonati nelle carceri di tutto il mondo, detenuti che lo Stato italiano non può più ignorare e dei quali deve prendersi cura.

Ornella Marraxia
Il mio ultimo messaggio a mio figlio prima che partisse in vacanza al Festival della musica in Romania: “Ciao Rumeno, divertiti con intelligenza”; era la fine della nostra serenità e l’inizio di un incubo da cui non riusciamo a svegliarci, e non lo sapevo.
Mi aveva parlato di questo evento, era felice e non vedeva l’ora di partire. Io, da mamma chioccia, un po’ meno. E poi quella telefonata, la voce disperata di Filippo: “Mamma mi hanno arrestato. Aiutami!” In quel momento sono morta, sicuramente una parte di me lo è per sempre, e non avevo ancora la più pallida idea di tutto quello che, da quel fatidico giorno, avremmo dovuto affrontare, completamente soli. Nove mesi di orrore, disperazione, smarrimento, porte chiuse in faccia e mura di gomma.
Filippo mi raccontava quel posto ogni giorno, le tragedie umane che si consumano dietro le sbarre, le condizioni di detenzione che non possiamo nemmeno lontanamente immaginare per quanto io provi a raccontarle e a descriverle. E la difficoltà di gestire questa sua sofferenza, le crisi di panico, le paure, la depressione, da lontano. Provando a infondergli coraggio e positività ogni giorno, assicurandogli che tornerà a casa sano e salvo, che i giudici guarderanno le carte e che non possono condannarlo. E ogni volta che ciò non avviene, mi sento di averlo tradito e illuso. E non posso neanche chiedergli “come stai” o “cosa fai” perché lui mi risponde: “Mamma non farmi queste domande perché lo sai bene cosa faccio qui dentro e come mi sento”.
Sudiciume, sporcizia, soprusi, deprivazione di ogni piccola traccia di dignità umana, trattato peggio di un animale.
Presi il primo aereo e andai in Romania il giorno dopo la sua telefonata. Fui immediatamente approcciata da personaggi “poco raccomandabili” che si avventano su di te come avvoltoi su una carogna. Avvocati, parenti di detenuti, persone incontrate per caso. Tutti cercano di estorcerti del denaro in un modo o nell’altro e io lì, sola, scandalizzata e inorridita dall’audacia delle loro proposte. Ti offrono soluzioni, a caro prezzo, tanto veloci quanto improbabili. C’è un intero sistema che specula sulle disgrazie altrui e ne hanno fatto metodo.
Potrei scriverci un libro sul nostro vissuto di questi dieci mesi se non fosse troppo doloroso ricordare e rivivere ogni singolo episodio. Anche adesso, quando parlo di quanto stia soffrendo Filippo ogni giorno, ogni istante chiuso dietro quelle sbarre, devo fare uno sforzo non indifferente per reprimere le emozioni e tirar dentro le lacrime. E mi rendo conto che Filippo, per quanto flebile, ha una voce. E non smetterò mai di ringraziare Rita Bernardini e Armida Decina che hanno dato voce a Filippo. Ma quanti detenuti non hanno questa possibilità.
Quando sento o leggo personaggi pubblici o politici difendere le loro posizioni, il loro immobilismo tirando fuori un numero: 2.200 detenuti italiani all’estero, a me tremano le gambe. Ripercorro l’inferno di Filippo ed il mio… 2.200 persone, colpevoli o innocenti, che vivono quell’inferno, trattati come le bestie nella totale indifferenza della propria nazione…
Dovreste solo vergognarvi. Meglio tacere sui numeri, perché dietro quei numeri c’è la sofferenza inaudita di intere famiglie.
The Butterfly Effect: “Si dice che il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo”. Abbracciate Filippo come se fosse vostro figlio, iniziate da lui, aiutatelo e sostenetelo. Ha bisogno di Aiuto e anche io.



20 TENTATIVI DI SUICIDIO, IL CALVARIO DI SIMONE IN UNA CELLA DOVE NON DOVREBBE STARE
Antonella Mascia*

Simone Niort è un giovane con importanti problemi psichiatrici che si trova in carcere dall’età di diciannove anni. In otto anni di carcere Simone ha tentato il suicidio almeno venti volte, si è inferto lesioni per almeno 300 volte, ha subito più di cento procedimenti disciplinari ed è stato incessantemente trasferito da una casa circondariale all’altra in Sardegna. A giugno 2023, per motivi disciplinari, è stato spostato a Torino, perdendo i contatti con la sua famiglia. A fine gennaio è stato rinviato in Sardegna, grazie anche all’intervento di Susanna Ronconi e della Garante dei detenuti di Torino Monica Gallo. Il percorso di Simone è un vero Calvario e va raccontato.
Fino al suo arresto avvenuto nel giugno 2016, la vita di Simone è costellata da difficoltà a integrarsi a causa del suo disagio mentale. Durante l’adolescenza il quadro si aggrava per l’assunzione di sostanze. Commette reati contro le persone e contro il patrimonio e finisce in carcere.
Ma Simone non capisce, non ha la capacità di comprendere il motivo della sua reclusione, la sua malattia non glielo permette. Dopo innumerevoli tentativi di suicidio, automutilazioni e sanzioni disciplinari, nel 2020 l’Ufficio di Sorveglianza ordina un periodo di osservazione psichiatrica come prevede l’ordinamento penitenziario per verificare se la condizione di Simone sia compatibile con il carcere. I presupposti ci sono tutti anche perché, nel 2019, in un procedimento penale, il consulente tecnico nominato d’ufficio aveva accertato che la malattia di Simone si era aggravata ulteriormente in carcere dove il giovane aveva sviluppato una “sindrome reattiva al carcere”.
L’osservazione psichiatrica è ultimata nel 2021, ma la relazione rimane riservata: né Simone nè il suo difensore riusciranno ad averne copia. L’Ufficio di Sorveglianza dell’epoca invece la legge e nel novembre 2022 indica che Simone ha un disagio che lo rende incompatibile con lo stato detentivo. Ciò nonostante, non decide di porlo al di fuori del carcere, ma ordina al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di individuare un istituto penitenziario idoneo a ospitare Simone e il suo bagaglio di sofferenza e disagio psichico. La richiesta è reiterata nel 2023, ma la risposta giusta non giungerà mai. Il motivo è semplice, la richiesta è stata rivolta all’amministrazione non competente. La Sorveglianza avrebbe dovuto chiedere non al DAP ma all’autorità amministrativa sanitaria competente di identificare un percorso di cura alternativo al carcere. Forse a causa della carenza strutturale di luoghi di cura in Sardegna per persone come Simone, forse per paura, la
scelta è stata una non scelta o una scelta obbligata. Simone non poteva essere collocato in un luogo idoneo alla sua condizione nel rispetto della sua dignità di essere umano, ma non poteva neppure essere liberato perché la sua pena sarebbe finita nel 2026. Tutto questo finisce sulle spalle del più fragile, su Simone, la persona che avrebbe bisogno di tutta l’attenzione di chi dispone del suo corpo, del suo tempo e della sua vita.
Il Calvario continua, i tentativi di suicidio non si fermano, le ferite, i tagli, le ingestioni di oggetti, le urla, la violenza sulle cose sono quotidiane. Simone finisce regolarmente in una cella “liscia” o di “transito” perché non faccia del male a sé e agli altri. Rimane isolato, non svolge alcuna attività educativa. Le sanzioni disciplinari, alcune sospese perché totalmente incapace di intendere e volere, lo allontano sempre più dalla vita sociale. Rimane solo, solo con sé stesso e il suo disagio.
Per tutto ciò, dopo che tutti i tentativi in Italia non hanno alcun effetto sulla sorte di Simone, si è tentata la via di Strasburgo. Ora il procedimento è in corso, ma anche davanti ai Giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo, il Governo italiano sembra essere indifferente alla sorte di Simone. Anche qui non è stata trasmessa l’osservazione psichiatrica approntata nel 2021 dove dovrebbe risultare che Simone è incompatibile con il carcere. E non è stata neppure presentata una relazione medica attestante la reale condizione di Simone come hanno richiesto i Giudici di Strasburgo.
L’indifferenza che avvolge Simone, completamente incapace di comprendere le ragioni della sua detenzione, impermeabile alla possibilità di utilizzare il suo tempo per lavorare alla propria riabilitazione e rieducazione lasciano a chi scrive un dolore che indigna. L’agire per Simone nasce dalla convinzione che la vera giustizia possa essere raggiunta solo attraverso l’impegno di tutti, nessuno escluso. Dunque scrivo contro l’indifferenza e nella speranza che tutto quello che sta succedendo a Simone cessi al più presto, prima che altri tentativi suicidari possano andare a buon fine, semmai buono può essere definito questo fine della pena.
* Avvocata, Consiglio Direttivo di Nessuno tocchi Caino


INDIA: 561 PRIGIONIERI NEL BRACCIO DELLA MORTE, NUMERO RECORD IN 19 ANNI
Il numero di prigionieri nel braccio della morte è salito in India a 561 nel 2023, il più alto in 19 anni. In precedenza, il numero più elevato di persone nel braccio della morte era di 563 nel 2004, sulla base dei dati del National Crime Records Bureau (NCRB).
L'aumento potrebbe essere dovuto a una combinazione di ragioni: la bassa disponibilità delle corti d'appello e la propensione dei tribunali di primo grado a emettere condanne a morte.
Secondo il rapporto annuale sulla pena di morte in India redatto dal Progetto 39A della National Law University di Delhi, i tribunali di primo grado hanno emesso 120 condanne a morte nel 2023, mentre altre sono pendenti per casi precedenti.
Sebbene il numero delle condanne a morte sia diminuito (156 nel 2016), alla fine del 2023 erano pendenti davanti alle alte corti 303 casi che coinvolgevano 488 prigionieri. Si tratta del livello più alto dal 2016.
In una tendenza che continua dal 2019, i crimini riguardanti reati sessuali hanno costituito la maggior parte dei casi di pena di morte nei tribunali di primo grado. Nel 2023, circa 64 persone (53%) sono state condannate a morte per reati sessuali. Un dato in aumento rispetto ai 27 prigionieri condannati a morte nel 2016.
Nel 75% dei casi, i tribunali hanno emesso la pena di morte quando il caso riguardava lo stupro e omicidio di una vittima di età inferiore a 12 anni.
È importante sottolineare che il 2023 ha segnato il tasso più basso di conferme di condanne a morte da parte delle corti d’appello dal 2000, con una sola conferma da parte dell’Alta Corte del Karnataka. Le assoluzioni hanno dominato gli esiti dei casi di pena di morte nelle corti d’appello nel 2023.
Il rapporto afferma: "La Corte Suprema e le alte corti hanno sollevato gravi preoccupazioni sulla natura scadente delle indagini e sulla scarsa qualità delle prove su cui si basano i tribunali di primo grado per giudicare e condannare a morte gli imputati. La Corte Suprema ha continuato la tendenza degli anni precedenti facendo affidamento sui rapporti del carcere relativi a condotta e valutazione psichiatrica degli imputati per commutare le condanne a morte di tre prigionieri, in due casi”.
In contrasto con la crescente preoccupazione delle corti d’appello per la mancanza di informazioni sugli imputati nel decidere la sentenza, i tribunali di primo grado nel 2023 hanno continuato a imporre condanne a morte in stragrande maggioranza (nell’87% dei casi) senza ottenere da parte dello Stato le necessarie relazioni sulle circostanze attenuanti. Questi dati indicano un divario sempre più ampio tra gli sforzi delle corti d’appello per migliorare la capacità istituzionale di amministrare la pena di morte e il persistente problema legato alle sentenze capitali nei tribunali di primo grado. Nel 2022, la Corte Suprema ha chiesto alla sua sezione costituzionale di stabilire linee guida per la definizione di condanne efficaci e significative nei casi capitali.
(Fonte: TNN, 10/02/2024)

newsletter a cura di Nessuno Tocchi Caino,  questo servizio è realizzato nell'ambito di un progetto sostenuto dall'Unione Europea. Le opinioni espresse in questa pubblicazione non riflettono necessariamente quelle della Commissione dell'Unione Europea.

3 marzo 2024

Ma chi sono questi HOUTI che tengono in scacco il commercio e la navigazione civile del Mar Rosso e di Suez?

 

Da Nessuno Tocchi Caino



GLI HOUTHI CONTRO LA GUERRA MA GIUSTIZIANO LA LORO GENTE

Sergio D’Elia su L’Unità del 25 febbraio 2024

Nella miriade di milizie militari e paramilitari che agitano il Medio Oriente, gli Houthi sono davvero un soggetto particolare. Si chiamano così per via del loro fondatore, Hussein Badreddin al-Houthi. Lo stesso nome di famiglia porta il capo attuale, Abdul Malik Al-Houthi. Sui legami di sangue si è costituito un clan, sullo spargimento di sangue il clan si è fatto Stato. Uno stato inufficiale, che si regge non sul diritto internazionale e le regole delle Nazioni Unite ma sulla fede islamica di stampo sciita e le direttive dei mullah iraniani, dai quali prendono esempio in tutto e per tutto.

Il loro statuto fondamentale non è la Carta delle Nazioni Unite, ma la legge della Sharia che è ad un tempo costituzione, legge morale e codice penale. Il loro programma minimo è racchiuso nel grido di battaglia che i miliziani Houthi ripetono ossessivamente: Dio è grande! Morte all’America! Morte a Israele! Siano maledetti gli ebrei! Vittoria per l’Islam!

I Partigiani di Dio sono scesi dalle montagne del nord dello Yemen negli anni ‘90, insorgendo per il presunto abbandono della loro regione, ma con l’obiettivo non di liberare il paese dall’oppressore sunnita filo saudita ma di promuovere una teocrazia sciita. La loro guerra “civile” ha concorso in otto anni al risultato di decine di migliaia di morti e milioni di persone sull’orlo della carestia. Mentre gli occhi e non solo, del mondo libero e non solo, sono puntati sui loro attacchi nel Mar Rosso, le minacce ricorrenti alla libera circolazione delle merci e addirittura alla pace e alla sicurezza mondiali, il mondo intero appare del tutto indifferente ai loro abusi in patria, agli attacchi sistematici alla libertà di pensiero, alle intimidazioni nei confronti di chi mina l’ordine politico e morale interno. Si preoccupano dei diritti umani a Gaza, gli Houthi, e sostengono di difendere i palestinesi, ma non hanno problemi a flagellare e lapidare a morte gli yemeniti sulla base del loro orientamento sessuale o dell’identità di genere, reali o presunti che siano.

Nelle ultime settimane due tribunali gestiti dagli Houthi hanno condannato più di 45 persone a morte, alla fustigazione o al carcere per accuse relative a comportamenti omosessuali, ha riportato anche Amnesty International. Il 23 gennaio scorso, un tribunale penale di Dhamar, nel nord dello Yemen, ha condannato nove persone – di cui sette alla lapidazione e due alla crocifissione – mentre altre 23 persone sono state condannate a pene detentive variabili da sei mesi a dieci anni con accuse tra cui “omosessualità”, “diffusione dell’immoralità” e “atti immorali”. Tre video apparsi per la prima volta sui social media il 24 e 25 gennaio mostravano almeno due persone frustate in pubblico da un uomo della sicurezza in uniforme. Si ritiene che i video siano stati girati davanti alle case degli uomini e alla presenza di funzionari Houthi.

Il 1° febbraio, un tribunale di Ibb, nel sud dello Yemen, ha emesso condanne a morte contro 13 studenti e condanne alla fustigazione nei confronti di altri tre con l’accusa di “diffusione dell’omosessualità”.

Gli Houthi non si sono fatti scrupolo a mettere in giro nuovamente dei video che mostravano un giudice in un tribunale che leggeva le condanne a morte. Altri 35 “omosessuali” erano già detenuti dagli Houthi nella provincia di Ibb.

Le condanne a morte non vengono sempre eseguite dagli Houthi. Comunque, secondo un recente rapporto dell’Euro-Mediterranean Human Rights Monitor, gli Houthi hanno condannato a morte 350 persone da quando hanno preso la capitale nel 2014 e ne hanno giustiziate 11.

Gli Houthi hanno iniziato a colpire le navi del Mar Rosso dichiaratamente in segno di protesta contro la guerra tra Israele e Hamas. Al di là di pochi danni materiali, gli attacchi non hanno provocato vittime tra i loro nemici giurati, Israele, gli Stati Uniti d’America e il Regno Unito. In compenso, è aumentata la persecuzione delle persone LGBTQ+ con pene di morte, torture, arresti arbitrari, minacce e molestie di ogni tipo. Si conferma una regola di comportamento comune a tutti i regimi illiberali. Prima e oltre che una minaccia potenziale alla pace e alla sicurezza mondiale, i regimi costituiscono un pericolo attuale e incombente sui propri stessi cittadini. La guerra da loro mossa nei confronti di altri popoli non è altro che la proiezione esterna della guerra quotidiana che essi conducono all’interno, contro il loro stesso popolo.



ARABIA SAUDITA: 12 GIUSTIZIATI PER TERRORISMO E OMICIDIO

L'Arabia Saudita ha in questi ultimi giorni giustiziato 12 persone in due casi distinti, portando a 34 il numero delle esecuzioni praticate nel Regno da inizio 2024.

Il 28 febbraio sono stati giustiziati cinque cittadini yemeniti accusati di omicidio e rapina, hanno riferito i media statali.

Una dichiarazione del ministero degli Interni, riportata dall'agenzia di stampa ufficiale saudita, afferma che il gruppo era stato condannato per l'omicidio di un connazionale yemenita e per "formazione di una banda a scopo di furto e rapina".

Le cinque esecuzioni sono avvenute nell’Asir, regione sud-occidentale del Paese.

Secondo l’agenzia, i cinque uomini – identificati come Hassan Fatini, Ibrahim Ali, Abdullah Darwish, Abdullah Majari e Hamoud Shuai – avrebbero ammanettato la vittima, Ahmed al-Aradi, uccidendola con colpi alla testa.

L’appello dei cinque uomini era stato respinto e il verdetto era stato confermato dalla Corte Suprema saudita.

Il 27 febbraio sono state giustiziate sette persone per reati di "terrorismo", hanno riferito i media statali, il numero più alto nel Paese in un solo giorno da quando furono messi a morte 81 prigionieri nel marzo 2022.

I sette erano stati condannati per "creazione e finanziamento di organizzazioni ed entità terroristiche", ha affermato l'agenzia di stampa ufficiale saudita, citando il ministero degli Interni del Regno.

La nazionalità dei sette giustiziati non è stata rivelata, ma i loro nomi e titoli indicano che sono sauditi.

Erano stati condannati per "aver adottato un approccio terroristico che causa spargimenti di sangue, creato e finanziato organizzazioni ed entità terroristiche, e comunicato e trattato con loro con l'obiettivo di minare la sicurezza e la stabilità della società" e di mettere in pericolo la sicurezza nazionale, ha affermato l'agenzia di stampa ufficiale.

Il rapporto non fornisce ulteriori dettagli sulle accuse contro di loro.

L'Arabia Saudita, uno dei paesi più attivi al mondo nell'applicazione della pena capitale, ha messo a morte un totale di 170 persone nel 2023.

Tra le persone giustiziate lo scorso anno figurano 33 persone accusate di crimini legati al terrorismo e due soldati condannati per tradimento.

Nel mese di dicembre, il mese più mortifero del 2023, ci sono state 38 esecuzioni.

Le autorità saudite ritengono che le esecuzioni siano necessarie per “mantenere l'ordine pubblico” e che siano compatibili con la loro interpretazione della Sharia, il codice di diritto islamico basato sugli insegnamenti del Corano.

Gli attivisti sostengono che il continuo ricorso della pena capitale da parte di Riad danneggi gli sforzi del principe ereditario Mohammed bin Salman, sovrano di fatto, di trasformare il più grande esportatore di petrolio greggio del mondo in un centro commerciale e turistico.

Le esecuzioni minano l’immagine di una società più aperta e tollerante che è al centro del programma di riforme Vision 2030 del Principe Mohammed, sostengono gli attivisti.

(Fonti: AFP, 27/02/2024; AFP, 29/02/2024; EFE, 29/02/2024)






21 gennaio 2023

Nessuno Tocchi Caino newsletter Anno 23 - n. 3 - 21-01-2023

In questo numero

1.  LA STORIA DELLA SETTIMANA : IL MAROCCO CONCEDE LA GRAZIA AI CONDANNATI, L’ITALIA LI FA PENARE IN CARCERE
2.  NEWS FLASH: IL RITO SICILIANO, DOVE DIVENTA MAFIOSO QUEL CHE OVUNQUE È PENALMENTE IRRILEVANTE. IL CASO DI GIUSEPPE FARAONE
3.  NEWS FLASH: USA: JOHN S. HUGGINS, DA 25 ANNI NEL BRACCIO DELLA MORTE DELLA FLORIDA, CERCA ‘AMICI DI PENNA’
4.  NEWS FLASH: IRAN: IL RUOLO DEI ‘TRIBUNALI RIVOLUZIONARI’ NELLA VIOLAZIONE DEI DIRITTI UMANI
5.  NEWS FLASH: ALABAMA (USA): AIRGAS SI RIFIUTA DI FORNIRE AZOTO PER LE ESECUZIONI



1- IL MAROCCO CONCEDE LA GRAZIA AI CONDANNATI, L’ITALIA LI FA PENARE IN CARCERE
di Matteo Angioli

Lo scorso 11 gennaio il re del Marocco Mohammed VI ha concesso la grazia a 991 condannati, dei quali circa 700 già condannati in via definitiva alla reclusione. L’atto di clemenza è stato deciso per la commemorazione del Manifesto dell’Indipendenza, di cui ricorreva il 79° anniversario un mese prima, l’11 dicembre. Tra i beneficiari dell’amnistia figura anche un condannato a morte la cui pena è stata commutata all’ergastolo.
Un provvedimento che richiama alla mente l’apprezzamento di Marco Pannella per il sovrano marocchino e per le monarchie costituzionali. Mohammed VI ha infatti preso una decisione che in Italia manca dal 1990 e che nel nostro Paese fu invocata da un altro sovrano che di costituzionale non aveva molto, Papa Giovanni Paolo II, in un memorabile intervento a Camere riunite nel 2002 accolto dai parlamentari con un applauso scrosciante.
Possiamo constatare come un atto di clemenza del genere – espresso dalla volontà di dare ai cittadini detenuti la possibilità di perseguire il proprio riscatto civile e il reinserimento nella società – accentui i connotati democratici che i monarchi possono contribuire a coltivare. In questo senso il Marocco appare più europeo e moderno di quanto possa sembrare.
Già nel 1987 il Marocco aveva presentato la propria candidatura di adesione alla Comunità Europea. La richiesta, formulata da Hassan II, padre del sovrano attuale, fu respinta perché il Marocco non era uno Stato europeo, almeno geograficamente parlando.
Il Paese di Mohammed VI fa comunque parte di una zona di libero scambio con l’UE da quando, nel 2000, siglò l’accordo di associazione UE-Marocco. Dal 2008, inoltre, Rabat gode dello “status avanzato” nei rapporti con l’UE, condizione che punta a rafforzare ulteriormente il partenariato, di cui a oggi godono soltanto altri due Paesi della regione in questione: Giordania e Israele.
L’azione modernizzatrice di Mohammed VI è certamente agevolata da una cultura aperta che è espressa dalla Costituzione stessa, nel cui preambolo figurano anche le radici ebraiche che sono un vero e proprio tabù per molti Paesi del mondo arabo. “La sua unità, forgiata dalla convergenza delle sue componenti arabo-islamica, berbere e saharo-hassanide, fu nutrita e arricchita dai suoi affluenti africani, andalusi, ebrei e mediterranei”, recita il testo costituzionale.
Un altro sovrano “illuminato” che non di rado ricorreva negli interventi di Marco Pannella era il Re di Danimarca, Cristiano X, che durante la Seconda Guerra Mondiale contrastò gli invasori nazisti e protesse la minoranza ebraica anche minacciando di indossare la stella gialla con cui si marchiavano i cittadini ebrei.
Il sovrano agì in modo tale da incentivare nella popolazione l’avversione al nazismo, al punto che furono pochissimi gli ebrei rastrellati e deportati.
Per non parlare poi dell’ammirazione che il leader radicale manifestava per Elisabetta II la quale, prima di concedere come da prassi la prestigiosa onorificenza dell’Ordine della Giarrettiera all’ex Primo Ministro Blair, ha mantenuto il premier laburista in una sala d’attesa di ben 15 anni.
Come i suoi predecessori, Blair avrebbe dovuto ricevere l’onorificenza poco dopo la fine del suo mandato nel 2007. Ma la Regina decise di non procedere. Un rifiuto che Marco Pannella spiegava con lo sdegno della “graziosa” sovrana per lo sciagurato attacco militare in Iraq a cui il governo britannico partecipò attivamente.
Dato il modo truffaldino in cui fu concepito e presentato l’attacco nel Regno Unito e alla luce poi delle conseguenze disastrose che esso provocò al funzionamento e alla reputazione della democrazia, negli anni successivi demmo il via con Marco Pannella all’iniziativa per il “diritto alla conoscenza” nella quale, non casualmente, il nostro cammino ha incrociato quello del Marocco. Mancavano infatti pochissimi giorni alla scomparsa di Pannella quando, nel maggio 2016, tenemmo un incontro pubblico al Consiglio Diritti Umani delle Nazioni Unite a Ginevra sull’erosione dello Stato di Diritto e sul diritto alla conoscenza convocato dalla Rappresentanza Italiana all’ONU. All’evento parteciparono le Rappresentanze permanenti di Irlanda, Canada, Messico e Marocco.
Nel messaggio che Pannella inviò per l’occasione, scrisse: “il diritto deve vivere come legge, non come richiamo astratto di tipo legale. Dove c’è strage di diritto c’è strage di popoli, quindi viva il diritto e non l’eccezione al diritto.”
Un provvedimento di clemenza come l’amnistia non è l’eccezione ma uno strumento di governo costituzionalmente previsto che in Italia sarebbe, oltre che efficace nel contrasto alla recidiva, necessario e urgente anche per alleggerire il carico intollerabile di processi che pendono nei tribunali e di vite umane che penano nelle carceri.


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NEWS FLASH

2 - IL RITO SICILIANO, DOVE DIVENTA MAFIOSO QUEL CHE OVUNQUE È PENALMENTE IRRILEVANTE. IL CASO DI GIUSEPPE FARAONE
di Michele Gelardi*

Per i siciliani vige un diritto penale speciale? In effetti, alcune pronunce giudiziali lasciano molto perplessi e sembrano suggerire l’amara conclusione che a Palermo può costituire reato ciò che a Bolzano sarebbe penalmente irrilevante.
Un caso esemplare riguarda un ex consigliere del Comune di Palermo, Giuseppe Faraone, condannato per tentativo di estorsione in concorso con una cosca mafiosa della quale non faceva parte. Accanto al concorso esterno in associazione mafiosa, del quale non si scorge traccia in alcuna parte del mondo, ci tocca salutare questa new entry: concorso “esterno” nel fatto “interno”. Il giurista potrebbe obiettare che la correità dell’extraneus nel fatto dell’intraneus non è una novità. Verissimo. Ma siffatta correità presuppone che i due soggetti abbiano concordato il fatto criminoso, successivamente realizzato dall’intraneus.
Ebbene, nel diritto speciale siciliano non c’è bisogno di alcuna decisione comune, di alcun programma criminoso concordato: l’extraneus concorre nel fatto dell’intraneus a prescindere da qualsivoglia intesa e apporto causale.
Il fatto assolutamente certo, pacificamente riconosciuto dalle parti processuali e acclarato in sentenza, è che Faraone non apparteneva ad alcuna cosca mafiosa; né strinse con chicchessia alcun pactum sceleris preordinato all’estorsione; né aveva alcun interesse personale all’illecito profitto. Secondo l’accusa, egli si sarebbe limitato a “consigliare” alla vittima di soccombere obtorto collo alla richiesta estorsiva.
In verità, egli nega qualsivoglia consiglio, tacito o esplicito, criptico o palese, e intende adoperarsi per la revisione del processo. Ma non è questo il punto; si tratta di capire come mai una res inter alios acta, che non costituirebbe reato in alcuna parte del mondo, in Sicilia acquista le sembianze di un grave reato di mafia, commesso tuttavia da un non mafioso.
Nella sentenza di condanna a carico dell’ex consigliere comunale, pronunciata secondo il rito speciale siciliano, emergono almeno tre anomalie.
Della prima si è già fatto cenno. Nella sostanza l’accusa riguardava un fatto altrui.
Il terzo non può concorrere nel fatto altrui, se non interagisce in alcun modo con l’autore (o gli autori, nel caso di specie). Una relazione deve pur instaurarsi; una collaborazione deve pur estrinsecarsi in qualche modo. Ebbene, manca nelle pagine processuali qualsiasi traccia di siffatta relazione “collaborativa”.
Manca l’appartenenza del condannato alla cosca mafiosa, alla quale si attribuisce il tentativo di estorsione; non emerge in alcun modo un disegno criminoso comune; non emerge alcuna cointeressenza economica. Nel deserto probatorio, mancano perfino gli indizi della “collaborazione”. E l’anomalia risiede proprio in ciò: il diritto penale speciale della Sicilia non esige, ai fini della responsabilità concorsuale, l’apporto materiale o l’istigazione del concorrente; basta un semplice “consiglio” disinteressato che non modifica di una virgola il fatto altrui.
A tutto concedere, in mancanza di qualsivoglia cooperazione, si potrebbe pensare al favoreggiamento. E tuttavia tale reato meno grave postula comunque il dolo del favoreggiatore, ossia la consapevolezza di costui di favorire una determinata persona o gruppo di persone, non già un soggetto ignoto, le cui vicende non destano alcun interesse. Nel caso di specie, manca pure tale consapevolezza.
In conclusione, il fatto per il quale è stato condannato Faraone, negato tenacemente da lui, si sarebbe tutt’al più concretizzato in un “consiglio” sbagliato e inopportuno, penalmente irrilevante sotto ogni latitudine e longitudine di questa terra.
Peraltro, il malcapitato è stato condannato con l’aggravante del metodo mafioso.
Si deve supporre che tale metodo sia transitato per automatismo, ignoto al diritto penale dei paesi civili, dalla cosca a colui che non apparteneva a quella e alcun’altra cosca. In sintesi, al non mafioso viene attribuita l’aggravante prevista per il mafioso. E infine si deve citare la terza anomalia, che farebbe sorridere, se non fosse tragica. Il condannato, che tuttavia si proclama innocente, ha scontato quattro anni di detenzione, in via preventiva, mentre, ne avrebbe scontati tre, in via definitiva. Beffardamente il Giudice siculo-italiano gli riconosce un “credito” di un anno di detenzione. Ovviamente tale credito potrà essere riscosso in caso di nuova detenzione, cosicché il riconoscimento del credito equivale di fatto all’augurio di una nuova detenzione.
Occorre altro per concludere che la terra sudtirolese è più felice di quella siciliana, dal momento che i suoi figli, i quali per avventura commettessero la “minkiaten” di un consiglio sbagliato, non correrebbero comunque alcun rischio di incappare in processi kafkiani speciali, caratterizzati dalla presenza della lettera M, la quale ha il potere di stravolgere le regole del diritto universale?
* Ex docente di Diritto penale

3 - USA: JOHN S. HUGGINS, DA 25 ANNI NEL BRACCIO DELLA MORTE DELLA FLORIDA, CERCA ‘AMICI DI PENNA’

John S. Huggins, 60 anni, bianco, da 25 anni nel braccio della morte della Florida, cerca “amici di penna”.
Nessuno tocchi Caino aveva riportato la notizia della sua condanna. 26 luglio 2002. Il 9-3  una giuria popolare di Tampa ha raccomandato  la condanna a morte per John S. Huggins per l’omicidio, avvenuto il 10 giugno 1997, di Carla Larson, 30 anni. La sentenza sarà decisa il 5 settembre da un giudice.
Larson era già stato condannato a morte nel 1999 per questo reato, ma la Corte Suprema della Florida aveva disposto la ripetizione del processo perché la pubblica accusa aveva tenuto nascosti alcuni elementi che avrebbero potuto essere utili alla difesa. (Fonte: The Miami Herald)
19 settembre 2002: Il giudice Belvin Perry della Contea di Orange ha condannato a morte per la seconda volta John Huggins, 40 anni, per l’omicidio di una donna di 30 anni, Carla Larson, avvenuto nel giugno 1997. Il giudice Perry è lo stesso che nel 1999 aveva annullato la condanna a morte già emessa per lo stesso reato, riscontrando che nel processo di primo grado la pubblica accusa aveva tenuto nascosti alcuni elementi che avrebbero potuto avere rilievo per la difesa. In questo processo il giudice Perry ha ritenuto che i precedenti dell’imputato, e la particolare efferatezza dell’omicidio siano tali da giustificare una nuova condanna a morte. Non è chiaro se la condanna a morte diventerà effettiva, a seguito della sentenza di giugno della Corte Suprema degli Stati Uniti che in un caso dell’Arizona sanciva che debba essere una giuria popolare e non un singolo giudice a emettere una condanna a morte. La Corte suprema della Florida all’inizio di luglio ha sospeso le esecuzioni in attesa di valutare se la sentenza sul caso dell’Arizona ha conseguenze anche sul sistema capitale della Florida.
(Fonte: A.P.)

La lettera che Huggins ha mandato a Nessuno tocchi Caino è all’indirizzo riportato sotto:

4 - IRAN: IL RUOLO DEI ‘TRIBUNALI RIVOLUZIONARI’ NELLA VIOLAZIONE DEI DIRITTI UMANI

Il governo iraniano sta tentando di reprimere brutalmente le diffuse proteste scatenate dalla morte della 22enne Mahsa Amini durante la custodia della polizia nel settembre 2022.
Al centro della risposta dell'Iran ci sono stati i "tribunali rivoluzionari" del Paese. Hanno condotto processi fortemente criticati che hanno portato ad almeno quattro esecuzioni, mentre oltre 100 manifestanti corrono un serio rischio di esecuzione imminente.
I processi penali in questi tribunali si svolgono spesso a porte chiuse, sono presieduti da religiosi, senza alcuna delle garanzie standard della procedura penale come concedere tempo e accesso agli avvocati per preparare una difesa.
Le comunicazioni alle Nazioni Unite da parte di organizzazioni della società civile iraniana riferiscono che agli avvocati viene regolarmente negato l'accesso ai clienti e che le confessioni estorte, spesso ottenute con la tortura, vengono utilizzate come prove.
Tara Sepehri Far, ricercatrice senior sull'Iran presso Human Rights Watch, descrive i processi come "una totale parodia della giustizia".
Processi iniqui rispetto agli standard internazionali sono stati una caratteristica del sistema legale iraniano sin dalla rivoluzione islamica del 1979.
I tribunali sono stati istituiti per processare gli oppositori del regime che affrontano accuse di sicurezza nazionale, accuse mal definite che comportano la pena di morte. Tali vaghe accuse includono guerra contro Dio ("Moharebeh"), corruzione sulla Terra ("Ifsad fel Arz") e ribellione armata ("baghi").
I tribunali sono parte integrante del consolidamento del potere islamista iniziato pochi mesi dopo la rivoluzione. Come risulta dalla struttura del governo iraniano, i tribunali completano il ruolo di organi parastatali come i Basij.
I Basij sono un'organizzazione paramilitare formatasi subito dopo la rivoluzione. Supporta la “guidance patrol”, colloquialmente nota come “polizia morale”.
Il Basij è essenziale per lo stato autoritario iraniano. Si trova sotto il comando del Corpo delle guardie rivoluzionarie iraniane ed è ferocemente fedele al leader supremo Ayatollah Ali Khamenei.
Il Tesoro degli Stati Uniti ha imposto sanzioni ai membri anziani del Basij e a una rete di imprese che ritiene stia finanziando l'organizzazione.
I processi segreti dei tribunali rivoluzionari, le accuse vaghe, il diniego di avvocati e le prove ottenute con la coercizione e la tortura hanno focalizzato l'attenzione sulle violazioni flagranti e persistenti dell'Iran dei suoi obblighi internazionali in materia di diritti umani.
Nel 1975, l'Iran ha ratificato il Patto internazionale sui diritti civili e politici, che garantisce il diritto alla vita e il diritto a vivere liberi da torture o trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti. Il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha affermato che la pena di morte non è coerente con queste garanzie, ponendo l'Iran in violazione dei suoi obblighi internazionali in materia di diritti umani.
La garanzia del diritto a non essere torturati è ribadita nella Convenzione contro la tortura, che l'Iran non ha ratificato. È l'unico paese del Medio Oriente a non averlo fatto e uno dei soli 20 al mondo.
In una revisione periodica del rispetto dei diritti umani da parte dell'Iran, nel 2020 le Nazioni Unite hanno raccomandato all'Iran di ratificare il trattato, porre fine all'uso della tortura e indagare in modo credibile e perseguire tutte le accuse di tortura. L'Iran ha respinto queste raccomandazioni.
La Ong “Center for Human Rights in Iran” avverte che le esecuzioni sono "un preludio a più omicidi di giovani sponsorizzati dallo stato (esecuzioni, ndt) in assenza di una risposta internazionale forte e coordinata".
Queste impiccagioni sono state definite dai partiti di opposizione in esilio come sforzi disperati per prevenire l'inevitabile rovesciamento del regime, e dal Dipartimento di Stato americano come tentativi per intimidire gli iraniani e sopprimere il dissenso.
La risposta dell'Australia a due esecuzioni alla fine dell'anno scorso è stata quella di condannare le esecuzioni, rilasciare una dichiarazione congiunta con Canada e Nuova Zelanda e sottoporre la polizia morale iraniana e i Basij a sanzioni internazionali.
Nonostante la diffusa condanna internazionale, l'Iran sta mantenendo il suo impegno a continuare a reprimere le proteste.
Possiamo condannare la condotta del paese e imporre sanzioni, ma purtroppo l'Iran è libero di persistere nonostante le sanzioni, se lo desidera.
Per lo meno, ciò che le sanzioni internazionali e l'indignazione globale possono fare è dare cuore e speranza ai manifestanti e aiutare a segnalare loro che il mondo sta guardando e sta con loro.
(Fonte: The Conversation, 13/01/2023)


5 - ALABAMA (USA): AIRGAS SI RIFIUTA DI FORNIRE AZOTO PER LE ESECUZIONI

L’azienda Airgas si rifiuta di fornire azoto per le esecuzioni capitali in Alabama.
Acquisita dalla francese Air Liquide nel 2016, Airgas è la più grande rete di distribuzione statunitense nel settore del gas confezionato e ha 24 filiali in Alabama.
In una dichiarazione, un portavoce di Airgas ha affermato che la fornitura di gas per le esecuzioni non rientra nella missione dell'azienda. "Nonostante il dibattito filosofico e intellettuale sulla stessa pena di morte, la fornitura di azoto ai fini dell'esecuzione umana non è coerente con i valori della nostra azienda".
Airgas ha contattato l'Alabama a dicembre per "rafforzare il punto e garantire che non ci fosse confusione riguardo alla posizione di Airgas", ha affermato il portavoce.
“Pertanto, Airgas non ha e non fornirà all'Alabama azoto o altri gas inerti per indurre l'ipossia ai fini dell'esecuzione umana. Il contatto di Airgas con lo Stato dell'Alabama ha riconosciuto di aver ricevuto la nostra recente comunicazione e ha confermato la loro comprensione".
Nessuno stato ha ancora effettuato una esecuzione con un nuovo metodo ipotizzato, la “ipossia da azoto”, che in teoria ucciderebbe una persona non attraverso un gas velenoso, ma privandola completamente dell’ossigeno. L’ipossia da azoto ha un certo utilizzo in veterinaria, più precisamente quando si tratta di abbattere, per motivi compassionevoli, animali di medie o grosse dimensioni, ma a quanto si sa non è mai stato usato in nessuna parte del mondo su esseri umani.
L'Alabama ha approvato questo metodo per uccidere i detenuti nel braccio della morte nel 2018 e quell'estate ha dato alle persone sedute nel braccio della morte dell'Alabama una finestra di un mese per decidere se volevano cambiare il loro metodo di esecuzione dall'iniezione letale all'ipossia da azoto.
Tale processo è stato esaminato in cause legali, da giudici federali e dalla Corte Suprema degli Stati Uniti.
L’Alabama compra da Airgas una media di 280.000 dollari di prodotto l’anno, soprattutto gas per usi industriali o di sicurezza.
La posizione di Airgas arriva sulla scia dell'annuncio del governatore Kay Ivey a novembre secondo cui non ci sarebbero state esecuzioni mentre veniva condotta una revisione interna sul protocollo di iniezione letale dell'ADOC.
In Alabama nel 2022 erano in calendario 4 esecuzioni, ma 2 hanno dovuto essere interrotte a causa di errori/imperizia dello staff.
(Fonte: al.com, 15/01/2023)
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14 gennaio 2023

Nessuno Tocchi Caino newsletter Anno 23 - n. 2 - 14-01-2023



Contenuti del numero:

1.  LA STORIA DELLA SETTIMANA : IL BOIA DEL MISSOURI FA LA STORIA: GIUSTIZIATA LA PRIMA DETENUTA TRANS

2.  NEWS FLASH: IL DIGIUNO DI COSPITO E’ IL NOSTRO DIGIUNO

3.  NEWS FLASH: TEXAS (USA): ROBERT FRATTA GIUSTIZIATO

4.  NEWS FLASH: YEMEN: GLI HOUTHI HANNO CONDANNATO A MORTE 350 OPPOSITORI POLITICI DAL 2014

5.  NEWS FLASH: BANGLADESH: DETENUTO IMPICCATO NEL CARCERE DI KASHIMPUR

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1- IL BOIA DEL MISSOURI FA LA STORIA: GIUSTIZIATA LA PRIMA DETENUTA TRANS

Valerio Fioravanti su Il Riformista del 13 gennaio 2023

Il 3 gennaio gli Stati Uniti hanno avuto fretta di chiudere la tradizionale “tregua natalizia”, e hanno giustiziato Scott/Amber McLaughlin. Non credo ci tenesse, ma passerà alla storia per essere stato il primo detenuto transessuale giustiziato negli Usa.

Gli americani sono molto politicamente corretti, e in quasi tutti gli articoli hanno chiamato McLaughlin “una donna transessuale”. Non ho un’opinione precisa, ma la cosa mi sembra comunque più complicata di così.

Scott McLaughlin, bianco, 19 anni fa, all’età di 30 anni, commise un reato molto “maschile”: violentò e uccise la fidanzata che lo aveva lasciato. Al processo la giuria popolare era rimasta impressionata dalla difficile infanzia dell’imputato: figlio di una prostituta alcolizzata e di un tossicodipendente, portatore di chiari postumi di sindrome feto-alcolica, spostato, assieme a due fratelli, tra varie famiglie affidatarie fino a quando, all’età di 5 anni, è stato adottato dai coniugi McLaughlin. Sembra che il padre, un poliziotto, usasse il manganello e addirittura il taser per punire i tre fratellini. I genitori adottivi avrebbero anche chiuso a chiave la cucina in modo che i bambini non potessero accedere al cibo e, secondo la richiesta di grazia presentata lo scorso dicembre, avrebbero strofinato feci sul viso dei bambini quando sporcavano.

I problemi di salute mentale di McLaughlin iniziarono a manifestarsi presto. Alle elementari gli avevano calcolato un quoziente intellettivo molto basso, 82 punti, e diagnosticato l’ADHD (Disturbo da deficit di attenzione/iperattività). A 8 anni un consulente scolastico aveva scritto che “la sua situazione psicologica era estremamente grave”. Cartelle cliniche successive ci dicono che McLaughlin è stato “coerentemente diagnosticato con disabilità intellettiva borderline” e “universalmente diagnosticato con danno cerebrale e sindrome alcolica fetale”, e ha combattuto la depressione che ha portato a “molteplici tentativi di suicidio”. Pur essendo certo che aveva ucciso la donna, la giuria votò perché non fosse condannato a morte, ma all’ergastolo. Il giudice aveva “scavalcato” la giuria e aveva emesso la condanna a morte. Un giudice federale nel 2016 aveva annullato la condanna a morte perché non erano state adeguatamente valutate le condizioni mentali dell’imputato, ma nel 2021 la Corte d’Appello aveva revocato l’annullamento per motivi procedurali.

Dal fatto che sia stato giustiziato capiamo che il governatore del suo Stato, il Missouri, non lo ha ritenuto meritevole di clemenza. Ma hanno ucciso l’uomo che aveva stuprato una donna, oppure una donna? Sappiamo che al sistema penale statunitense il “cambiamento”, la “risocializzazione” o la “rieducazione” del reo non interessa, ma nel caso McLaughlin eravamo davanti a un cambiamento piuttosto radicale, forse meritevole almeno di una pausa di riflessione. Certo, si può sempre sospettare che quello di McLaughlin sia stato soprattutto un espediente, un tentativo di prendere tempo. Ma possiamo anche pensare che sia stata una cosa reale, e allora davvero, mai come in questo caso, hanno ucciso una persona radicalmente diversa da quella che aveva commesso il reato.

Ma come fa un criminale chiuso in un braccio della morte a “diventare donna”? Intanto precisiamo, McLaughlin aveva fatto la transizione ormonale, non quella chirurgica. Ma anche così, non è che uno si alza la mattina, va nell’infermeria del carcere e chiede estrogeni, e glieli danno.

Il caso che fece scuola in Missouri è quello di James/Jessica Hicklin, oggi 43 anni, bianca. Hicklin venne arrestato nel 1995, a 16 anni, per un omicidio legato alla droga. Condannato all’ergastolo senza condizionale più 100 anni, nel 2016 ha citato in giudizio l’Amministrazione Penitenziaria, contestando una politica che proibiva la terapia ormonale per i detenuti che non la ricevevano prima dell’arresto. Ha vinto la causa nel 2018, e da allora è diventata mentore di altri detenuti transgender, tra cui McLaughlin.

Nel frattempo Hicklin, dopo 26 anni di detenzione, è stata scarcerata nel gennaio 2022 grazie a una rimodulazione della pena scaturita dal fatto che all’epoca del reato fosse minorenne. Quando McLaughlin aveva iniziato la transizione circa tre anni fa, aveva scritto a Hicklin per farsi consigliare su questioni come la consulenza psicologica e la sua sicurezza all’interno di una prigione di massima sicurezza.

Requiescat in pace Amber, che ho dovuto segnare con un asterisco nel data-base di Nessuno tocchi Caino nella colonna “sesso del giustiziato”.

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*** NESSUNO TOCCHI CAINO - NEWS FLASH


2 - IL DIGIUNO DI COSPITO E’ IL NOSTRO DIGIUNO

Davide Tutino* su Il Riformista del 13 gennaio 2023

Cos’è un anarchico? Non è nulla se viene rinchiuso in un buco di cemento, se viene isolato dalla società e dal mondo, impossibilitato a contattare chiunque e perfino a leggere un libro; ma questo nulla ha un nome e cognome, Alfredo Cospito. Il nome e cognome, pur essendo un abito di suoni e di segni, alle volte ti sottrae all’annullamento, ti permette di entrare in un dia-logo, uno scambio di racconti, di ragioni e di ragione.

È grazie al suo nome che noi possiamo parlare di Alfredo Cospito, perché di lui ci è tolto tutto il resto: ci sono tolte le sue parole, il volto, il corpo, in violazione del principio costituzionale della proporzionalità tra pena e reato.

Alfredo Cospito era già in galera dal 2016, per aver sparato alla gamba di un industriale, ed era sotto processo per una bomba carta esplosa senza vittime di fronte a una caserma. Era in prigione quando il suo reato è stato riqualificato in “strage”, e gli è stato comminato l’ergastolo ostativo, con impedimento di qualunque contatto col mondo esterno. Cosa sono l’ergastolo ostativo e il famigerato 41 bis per i quali l’Italia è già stata censurata da organismi internazionali? È isolamento e tortura, fino alla follia o fino alla morte, e Alfredo sta per uscirne con la morte. Nel giorno di pubblicazione di questo articolo egli, se ancora vivo, si avvicina al novantesimo giorno di sciopero della fame.

La gran parte della gente ignora il suo nome, ma finalmente una parte del mondo intellettuale si sta accorgendo di questo peso sulla coscienza del paese. Decine tra professori, magistrati, giuristi, avvocati, nell’omertà quasi completa della classe politica, chiedono l’interruzione della tortura e dell’isolamento, e la restituzione di Alfredo a un regime carcerario rispettoso della sua dignità umana, dei suoi diritti e della sua salute.

Chiedevamo che cos’è un anarchico, e ricordiamo tristemente cosa è stato nella storia. Quando non è più possibile nascondere gli abusi del potere sul suo corpo, un anarchico appare nella nudità della sua condizione di fronte al potere: è un esperimento, è il corpo inerme su cui si esercita di volta in volta un nuovo slittamento del diritto, delle procedure e dei significati. Sull’anarchico il potere sperimenta volentieri fin dove può arrivare, se noi non ci opponiamo, se noi non lo fermiamo.

Noi chi? Noi che sappiamo, noi che sapendo non possiamo, non dobbiamo e non vogliamo tacere. Sta a noi che non si proceda oltre questo pericoloso slittamento giuridico: il 41 bis, procedimento già discutibile concepito per isolare i mafiosi, viene esteso al vasto mondo dei reati politici, in un momento storico in cui il dissenso e la libertà di opinione sono già in serio pericolo. È la Procura di Torino ad aver chiesto la riqualificazione del reato per cui Cospito stava già scontando la pena dal 2016, la stessa procura che si sta rendendo protagonista della criminalizzazione del dissenso politico.

È la Procura di Torino ad aver messo su il “Pool Anti No-Tav”, trattando un movimento di resistenza nonviolenta, strettamente legato al territorio, alla stregua del terrorismo internazionale. È la Procura di Torino ad aver rimesso nostalgicamente in auge l’indimenticato confino fascista, attraverso la richiesta di “sorveglianza speciale” per un ragazzo di vent’anni, colpevole di un atto vandalico.

Questo slittamento semantico e giuridico volto alla criminalizzazione del dissenso deve finire: perciò lo sciopero della fame di Alfredo, iniziato il 20 ottobre scorso, è il nostro sciopero. Dobbiamo salvarlo, se possibile, e dobbiamo comprendere e ricordare che tutti noi con lui siamo in pericolo: il suo ritorno a una condizione carceraria accettabile rappresenta per noi tutti, condannati al 41 bis di una libertà apparente fuori dalle mura, la possibilità di salvare il diritto, la giustizia, la dignità umana, fondamenti sui quali abbiamo costruito la nostra società e il nostro benessere.

Per queste ragioni Marianna Panico ed io, supportati dai compagni di Resistenza Radicale, da capodanno affianchiamo il nostro piccolo sciopero della fame a quello di Alfredo perché non accada che sia, il suo, fino alla morte ma fino alla vita. I nostri corpi affamati continuano a vivere nella società, ad alzarsi al mattino e lavorare, e la nostra piccola fame conosce una stilla della sua: sentiamo e sappiamo che un anarchico non è un esperimento, non è un nome o un corpo soltanto. È un uomo, una vita, un fratello.

La prigione oggi è la sua casa: dipende da noi tutti che non divenga la sua tomba. Imploriamo Alfredo di fermarsi, di vivere e consentirci di aiutarlo. Attraverso la fame ci uniamo a quella delle donne e degli uomini che si sono appellati all’Amministrazione Penitenziaria e al Governo, per un gesto di umanità e di coraggio. Si revochi il 41 bis, e si applichi al detenuto Cospito un regime carcerario dignitoso e giusto.

* Professor Studente

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 3 - TEXAS (USA): ROBERT FRATTA GIUSTIZIATO

Robert Fratta, 65 anni, bianco, è stato giustiziato in Texas il 10 gennaio 2023.

Fratta, ex agente di polizia, ha ricevuto un'iniezione letale nel penitenziario statale di Huntsville per aver ingaggiato due uomini affinchè uccidessero la moglie, Farah, nel novembre 1994.

È stato dichiarato morto alle 19:49, 24 minuti dopo che la dose letale di pentobarbital ha cominciato a fluire nelle sue braccia.  Per circa tre minuti prima dell'inizio dell'esecuzione, il consigliere spirituale di Fratta, Barry Brown, ha pregato su Fratta, che era legato alla barella della camera della morte con aghi per endovenosa in ciascun braccio. Alla domanda del direttore se avesse una dichiarazione finale, Fratta aveva risposto: "No".

Secondo l’accusa Fratta aveva pagato Joseph Prystash e Howard Guidry perché sparassero alla moglie simulando una rapina. Farah Fratta, 33 anni, è stata colpita due volte alla testa nel garage di casa sua.

Anche Prystash e Guidry sono stati condannati a morte. Fratta è il primo ad affrontare l'esecuzione.

Fratta era stato condannato a morte una prima volta nel 1996, ma la condanna era stata annullata da un giudice federale che ha stabilito che le confessioni dei suoi complici non avrebbero dovuto essere ammesse come prova. Era stato condannato di nuovo a morte nel 2009.

Una giudice del tribunale civile di Austin, Catherine Mauzy, aveva accolto un ricorso di Fratta che sosteneva che il pentobarbital che l’amministrazione intendeva usare fosse scaduto, e potessero risultare inefficace o molto doloroso. Questa decisione è stata annullata dalla corte d’appello penale, e l’annullamento è stato confermato dalla Corte suprema di stato.

L’esecuzione è stata ritardata di poco più di un'ora in attesa che la Corte Suprema degli Stati Uniti, la Corte Suprema del Texas e la Corte d'Appello del Texas esaminassero i tradizionali “ricorsi dell’ultima ora”.

Fratta diventa il primo detenuto a essere messo a morte quest'anno in Texas, il 579° in assoluto da quando il Texas ha ripreso le esecuzioni nel 1982, il 2° detenuto a essere messo a morte quest'anno negli Stati Uniti e il 1.560° in totale da quando la nazione ha ripreso le esecuzioni il 17 gennaio 1977. Altre otto esecuzioni sono previste in Texas entro la fine dell'anno.

(Fonte: APNews, 10/01/2023)

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4 - YEMEN: GLI HOUTHI HANNO CONDANNATO A MORTE 350 OPPOSITORI POLITICI DAL 2014

I ribelli Houthi hanno emesso nello Yemen 350 condanne a morte da quando nel 2014 hanno preso il potere con un colpo di stato.  Lo ha dichiarato il ministro dell'Informazione, Cultura e Turismo del governo yemenita Muammar al-Iryani all'agenzia di stampa ufficiale SABA.

"A partire dal colpo di stato, gli Houthi hanno emesso condanne a morte nei confronti di 350 persone con opinioni di opposizione, inclusi soldati, attivisti, giornalisti e politici", ha osservato.

Il ministro ha sottolineato che gli Houthi hanno utilizzato il sistema giudiziario come un brutale strumento per terrorizzare i loro oppositori e regolare i conti con i loro avversari politici, ricordando che alcune delle condanne a morte sono già state eseguite.

All'inizio di questa settimana, il Ministero per i Diritti Umani e Affari Legali dello Yemen ha comunicato che il tribunale penale Houthi ha approvato l'esecuzione di sei persone condannate per odio etnico e coinvolgimento in atti terroristici nella provincia di Sana'a.

Gli Houthi devono ancora commentare la dichiarazione del ministro yemenita.  Sostenuti dall'Iran, i ribelli Houthi controllano la capitale Sanaa e alcune regioni dello Yemen dal settembre 2014.  Le forze della coalizione araba guidata dall'Arabia Saudita sostengono il governo yemenita nella lotta contro gli Houthi dal marzo 2015.

(Fonti: TRT Haber, 05/01/2023)

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5 - BANGLADESH: DETENUTO IMPICCATO NEL CARCERE DI KASHIMPUR

Un uomo è stato impiccato l'8 gennaio 2023 nel Carcere Centrale di Massima sicurezza di Kashimpur a Gazipur, in Bangladesh.

Saiful Islam Rafique, alias Saidul Islam Rafique, 50 anni, era stato condannato a morte in un caso di rapina e stupro. Era originario del villaggio di Malti Nagar Namapara nel sottodistretto di Sadar, nel distretto di Bogra.

Il sovrintendente della prigione Subrata Kumar Bala ha assistito all'esecuzione del condannato, praticata alle 22:00, in base al regolamento carcerario.   Al termine dell’esecuzione praticata da Shahjahan Bhuiyan, il boia del Carcere Centrale di Kasimpur Part-4, è toccato al dottor Khairuzzaman, un chirurgo civile di Gazipur, verificare il decesso del giustiziato.

La denuncia per rapina e stupro era stata presentata alla stazione di polizia di Bogra nel 2004 ai sensi della Legge sulla Prevenzione e Repressione dei Crimini contro Donne e Bambini.

Dopo la condanna a morte, Saiful aveva presentato appello all'Alta Corte e successivamente una richiesta di revisione del caso, entrambe con esito negativo.  La domanda di grazia al Presidente era stata respinta il 3 novembre 2021, ha ricordato il Sovrintendente.

(Fonti: Probashir Diganta, 09/01/2023)

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9 aprile 2022

Trapianti d'organi in Cina - il reato di linciaggio è legge federale in USA

 STUDIO DI UNIVERSITÀ AUSTRALIANA SOSTIENE CHE I CHIRURGHI CINESI UCCIDONO I PRIGIONIERI PER PRELEVARE GLI ORGANI

Un nuovo studio australiano afferma di aver portato alla luce prove che i chirurghi in Cina hanno espiantato cuori dei condannati a morte prima della loro morte cerebrale.

Lo studio dell'Università Nazionale Australiana, pubblicato il 5 aprile 2022 sull'American Journal of Transplantation, ha preso in esame migliaia di articoli medici cinesi pubblicati nel corso di decenni, concludendo che i chirurghi sono stati impiegati dallo stato per uccidere prigionieri usando interventi di espianto d'organo.

I documenti ufficiali cinesi certificano che i prigionieri fossero cerebralmente morti prima della rimozione degli organi, tuttavia i ricercatori dell’università australiana affermano che il loro modello di calcolo abbia portato a conclusioni diverse.

Nel 2015 la Cina ha dichiarato di aver fermato l’espianto degli organi dai prigionieri giustiziati, che secondo i gruppi per i diritti umani includevano minoranze perseguitate come il Falun Gong e i musulmani Uiguri.

Tuttavia, questo è il primo studio sistematico a sostenere che i prigionieri fossero ancora vivi sul tavolo operatorio negli ospedali statali e militari cinesi quando i loro cuori e polmoni sono stati rimossi. Secondo queste conclusioni, i chirurghi hanno agito come boia al posto dei plotoni di esecuzione, in violazione dell'etica medica.

"Abbiamo scoperto che i medici sono diventati carnefici per conto dello stato e che il metodo di esecuzione era la rimozione del cuore", ha detto il coautore dello studio e ricercatore PhD Matthew Robertson.

"Questi interventi chirurgici sono altamente redditizi per i medici e per gli ospedali che li praticano".

Lo studio ha utilizzato analisi computazionali dei testi per condurre una revisione forense di 2838 documenti tratti da un insieme di 124.770 pubblicazioni relative a trapianti in lingua cinese. Un algoritmo ha cercato dichiarazioni dubbie di morte cerebrale e ha trovato che in 71 rapporti la morte cerebrale non era stata correttamente dichiarata.

Ciò significa che la rimozione del cuore durante la procedura è stata la causa medica del decesso, rendendo gli stessi chirurghi dei boia.

Robertson ha detto all'Australian Financial Review che è probabile che i numeri siano molto più alti di 71, dato che le evidenze sono scaturite da un piccolo campione, inoltre i risultati incompleti sono stati omessi e sono stati coinvolti 56 ospedali e più di 300 operatori sanitari in Cina.

“Probabilmente ci sono molti più casi non rilevati. Questo risultato viene da un piccolo campione", ha detto.

Il dottor Jacob Lavee, un cardiochirurgo israeliano, che ha anche una collaborazione con l'Università di Tel Aviv, è un coautore dell'articolo.

Robertson ha affermato che gli interventi chirurgici sono stati condotti su prigionieri del braccio della morte e su "prigionieri di coscienza", che potrebbero includere prigionieri politici o di etnia uigura.

"Anche se non sappiamo esattamente come questi prigionieri finiscano sul tavolo operatorio, possiamo ipotizzare che ci siano molteplici scenari preoccupanti su come ciò avvenga", ha affermato Robertson.

"Questi includono un proiettile alla testa del prigioniero prima di essere immediatamente portato d'urgenza in ospedale, o l'iniezione di una sostanza che paralizza il prigioniero".

Non è chiaro se qualcuno dei prigionieri fosse cosciente durante l’intervento di prelievo degli organi, sebbene questo non fosse l'obiettivo dello studio.

La regola universale del donatore morto afferma che il prelievo di organi non deve iniziare fino a quando un donatore non viene formalmente dichiarato morto.

I dati raccolti riguardano le procedure cliniche relative all'intubazione e alla ventilazione dei donatori, la dichiarazione di morte cerebrale e l'inizio dell'intervento chirurgico di prelievo degli organi.

Robertson è anche coautore di un documento del 2019 in cui suggerisce che il governo cinese potrebbe aver utilizzato una semplice equazione matematica per falsificare i suoi numeri di donazioni volontarie di organi.

La Cina ha ripetutamente negato le accuse di essere coinvolta nell'espianto di organi. Tuttavia, ha quello che si ritiene essere il più vasto programma di donazione volontaria di organi al mondo.

Lo studio afferma che la Cina prevede di eseguire 50.000 trapianti entro il 2023, formalmente da donatori volontari, il che costituirebbe il programma di trapianti volontari di maggior successo al mondo.

(Fonte: The Australian Review, 05/04/2022)


USA: BIDEN RATIFICA LEGGE CHE RENDE IL LINCIAGGIO REATO FEDERALE

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden il 29 marzo 2022 ha ratificato una legge contro il linciaggio.

Affiancato dalla vicepresidente Kamala Harris in una cerimonia sul prato della Casa Bianca, Biden ha firmato l'Emmett Till Antilynching Act, definendo ufficialmente il linciaggio un crimine d'odio federale, prevedendo pene fino a 30 anni.

La legge equipara al “linciaggio” anche reati diversi, come i rapimenti, gli abusi sessuali aggravati o i tentati omicidi, se motivati da “odio”.

"Il linciaggio era puro terrore, usato per rafforzare la menzogna che non tutti sono Americani allo stesso modo, che non tutti sono creati uguali", ha detto Biden dopo aver firmato la legge. Citando recenti episodi di violenza, ha avvertito che il razzismo rimane "un problema persistente" negli Stati Uniti.

Il disegno di legge prende il nome da Emmitt Till, un adolescente di Chicago che fu linciato nel Mississippi nel 1955. Till, che all'epoca aveva 14 anni, era in visita ai parenti quando una donna bianca lo accusò di averle fischiato. Fu rapito, picchiato, brutalmente ucciso, e il corpo zavorrato e gettato in un fiume. Due uomini vennero accusati dell’omicidio, ma vennero poi assolti da una giuria tutta bianca e tutta maschile.

Al funerale di Till, sua madre, Mami Till, aveva insistito perché la bara venisse lasciata aperta, per esporre pubblicamente la violenza inflitta a suo figlio.

Alla cerimonia della firma, la vicepresidente Harris, che ha co-sponsorizzato la legislazione anti-linciaggio quando era senatrice degli Stati Uniti, ha parlato della legge come “una questione che era rimasta in sospeso".

Oggi siamo riuniti per riconoscere l'orrore, e questa parte della nostra storia, per affermare inequivocabilmente che il linciaggio è ed è sempre stato un crimine d'odio e per chiarire che il governo federale può ora perseguire questi crimini in quanto tali, ha detto Harris.

“Il linciaggio non è una reliquia del passato. Gli atti di terrore razziale si verificano ancora nella nostra nazione e, quando si verificano, dobbiamo tutti avere il coraggio di nominarli e ritenere responsabili i colpevoli”.

La Ong “Equal Justice Initiative” ha documentato più di 6.500 linciaggi razziali negli Stati Uniti tra il 1865 e il 1950. Il rapporto del novembre 2020 del Death Penalty Information Center, Enduring Injustice: the Persistence of Racial Discrimination in the US Death Penalty, traccia la relazione storica tra linciaggi e la pena di morte negli Stati Uniti.

Durante la schiavitù, la pena capitale è stata utilizzata come strumento per controllare le popolazioni nere e frenare le ribellioni. Dopo l'emancipazione, i linciaggi sono proliferati. Per scoraggiare i linciaggi, i funzionari pubblici avevano promesso esecuzioni legali, spesso dopo processi farsa. Con la diminuzione dei linciaggi all'inizio del XX secolo, le esecuzioni hanno iniziato a prendere il loro posto in circostanze che in precedenza avrebbero attirato la folla dei linciaggi.

In tutto il sud, uomini e ragazzi afroamericani sono stati condannati e giustiziati per il presunto stupro o tentato stupro di donne o ragazze bianche. Nessun uomo bianco è mai stato giustiziato per aver violentato una donna o una ragazza nera.

(Fonte: DPIC)



22 dicembre 2021

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