Le donne cambiano la Storia, cambiamo i libri di Storia.

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LE DONNE CAMBIANO LA STORIA, CAMBIAMO I LIBRI DI STORIA
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12 agosto 2015

Gli ispettori riconoscono l'abuso sessuale come 'un rischio sempre presente' per le donne a Yarl's Wood (UK)



Bisogna chiudere Yarl's Wood! Abolire il rimpatrio rapido! Smettere la detenzione per immigrazione per tutti!

Invito all'azione MFJ per le  settimane fino al dibattito parlamentare del 10 settembre - parlamentari devono agire, Yarl's Wood deve essere chiusa, la detenzione deve finire.


In un rapporto di condanna pubblicato oggi gli Ispettori del carcere confermano ciò che generazioni di donne immigrate e richiedenti asilo detenuti nel centro di detenzione di Yarl's Wood sanno essere vero: che l'abuso sessuale è una parte inevitabile del sistema. Parlando di "comportamenti sessualmente inadeguati tra il personale e detenuti", il rapporto ammette che, "La vulnerabilità delle donne detenute, il carattere chiuso dell'istituto e lo squilibrio di potere tra il personale e i detenuti ha reso le singole istanze una forma di rischio sempre presente."

Inoltre, afferma il rapporto all'articolo 35, le valutazioni sulle vittime della tortura sono 'superficiali', che 99 donne in stato di gravidanza sono state arrestate nel 2014, che la fornitura di farmaci è 'caotica' e, anche se il 54% delle donne descrivono di essere depresse e con tendenze suicide, non c'è nessun servizio di consulenza.

Le donne a Yarl's Wood hanno sperimentato, e resistito, a tutte le forme di oppressione che le donne soffrono in tutto il mondo a causa del loro sesso: il matrimonio forzato, la minaccia di omicidio d'onore', stupri e abusi sessuali, la tratta a fini di prostituzione, mutilazioni genitali femminili, persecuzione come lesbiche o bisessuali, ecc Venendo a cercare sicurezza in Gran Bretagna si trovano ad affrontare una seconda persecuzione e la tortura come vittime  e capri espiatori politicamente motivati del razzismo sugli immigrati. La loro continua lotta rende Yarl's Wood il campo di battaglia centrale per i diritti delle donne e dei migranti in Gran Bretagna.

Quella lotta da parte delle donne di Yarl's Wood per affermare la loro dignità e la domanda di libertà, per la giustizia e il rispetto, e il crescente movimento nazionale per chiudere  Yarl's Wood erano in mostra alla magnifica manifestazione Sabato scorso, organizzata dal Movimento per la Giustizia. Vicino ai 1000 manifestanti uniti con le donne lungo le finestre come le grida e canti per la libertà da dentro e fuori. E 'questa lotta in continua crescita che ha reso possibile la gran quantità di denunce del regime di Yarl's Wood.

La risposta appena adeguata alla relazione di oggi è che Yarl's Wood deve essere chiusa.

Questa relazione segue di un giorno un altro colpo all'autorità del Ministero degli Interni. In una ulteriore sconfitta del governo in tribunale, al il Ministero dell'Interno è stato detto che le decisioni di ricorso sulle Detained Fast Track (DFT) deve essere 'messo da parte'. DFT - il sistema che ha isolato migliaia di richiedenti asilo in stato di detenzione è destinato a fallire - è stata riconosciuta come illegittima dal giudice quattro volte nel corso dell'ultimo anno e il governo è stato costretto a sospendere l'intero sistema. Ora le decisioni passate e le eventuali deportazioni programmate che ne derivano sono stati dichiarati nulli.

La rapida crescita degli immigrati in detenzione negli ultimi dieci anni ha reso il sistema più odiato e più esplosivo. Il crescente movimento dentro e fuori i centri di detenzione ha evidenziato il cinismo e l'ipocrisia di governi successivi e reso sempre più difficile da difendere questo sistema razzista.Tale disumanità si rifletteva nelle conclusioni e nelle proposte della inchiesta parlamentare sulla detenzione pubblicato nel marzo - che sarà discusso e votato dalla Camera dei Comuni il 10 settembre e il Movimento per la Giustizia sta organizzando manifestazioni e audizioni pubbliche nel periodo precedente il dibattito. e il giorno stesso.

"Queste vittorie possono essere l'inizio della fine della detenzione per gli immigrati. Il Movimento per la Giustizia sta raddoppiando gli sforzi per assicurare la sua rapida scomparsa. Si stanno organizzando varie azioni per amplificare le voci dei detenuti in modo che non possano essere ignorati. L'unico modo per porre fine all'abuso, all'abbandono e alla rabbia della detenzione deve essere smettere ladetenzione ". Antonia Luminoso, MFJ

9 agosto 2015

La democrazia non è uno stato.

Come ogni anno, sono tornato nel luogo di nascita di una nuova America - Selma, Alabama - dove una lotta decisa per i diritti civili ha trasformato la nostra democrazia 50 anni fa.

Il 7 marzo 1965, con Hosea Williams ho raccolto un gruppo di testimoni silenziosi, 600 crociati non violenti, pronti a marciare per 50 miglia fino a Montgomery - capitale dell'Alabama - per dimostrare la necessità dei diritti civili in America.

Ai piedi del ponte, fummo accolti dai poliziotti dello stato di  Alabama  che calpestarono i manifestanti pacifici con i loro cavalli e spararono gas lacrimogeni contro la folla. Sono stato colpito alla testa con un manganello sul ponte e sofferto una commozione cerebrale .

Ho pensato allora che quella sarebbe stata la mia ultima dimostrazione.
Ho pensato quel giorno che stavo per morire.

Ulteriori informazioni sul Voting Rights Act.
.John Lewis e altri manifestanti pacifici si scontrano con la polizia di Stato presso l' Edmund Pettus Bridge a Selma, in
Alabama, 7 marzo, 1965




































Ma appena due anni fa, la Corte Suprema ha sferrato un colpo al cuore del Voting Rights Act, annullando una disposizione fondamentale che aveva impedito che regole di voto discriminatorie e statuti potessero diventare legge. Non appena la decisione della Corte è stato annunciato, gli stati hanno iniziato ad attuare leggi restrittive del voto. 


Mentre alcuni Stati stanno cambiando le leggi aumentando il numero di americani in grado di partecipare alla nostra democrazia, ampliando il numero dei giorni per il voto anticipato e rendendo più facile per le persone esprimersi col voto, in troppi stati stanno passando nuove leggi che rendono più difficile difficile votare. 
I luoghi di registrazione per il voto anticipato e degli elettori sono state limitate. Le votazioni il giorno stesso sono state eliminate in alcuni casi. Sono state adottate leggi strette sulla dimostrazione di identità  e annullati impropriamente elenchi di voto per negare l'accesso a migliaia, forse milioni, che hanno votato per decenni. 
Ecco perché le persone sono ancora in marcia per questa causa ancora oggi. Anche mentre parliamo, la NAACP sta conducendo una marcia da Selma a Washington, DC di 40 giorni, 40 notti, a sostegno di una serie di questioni, tra cui la questione dei diritti di voto. 
Come cittadini, è nostro dovere fare in modo che il nostro processo politico rimanga aperto a ogni elettore ammissibili, e che ogni cittadino possa partecipare liberamente al processo democratico. 
E quando arriva il momento di uscire e votare - dobbiamo farlo. Il diritto di voto è il più potente strumento nonviolenta, di trasformazione che abbiamo in una democrazia, e il minimo che possiamo fare è sfruttare appieno la possibilità di far sentire la nostra voce.


Nonostante le sfide, sono ancora pieno di speranza - ma dobbiamo rimanere determinati.
 La democrazia non è uno stato. E 'un atto, e ognuno di noi, ogni generazione, deve fare la propria parte per contribuire a creare una più perfetta unione.

Continuiamo la  marcia.

John Lewis 
Membro del Congresso U.S.A.

18 luglio 2015

Informazione Corretta - 17 luglio 2015


Informazione Corretta - 17 luglio 2015
Bibi Netanyahu: ritratto di un leader
Lettera da Gerusalemme, di Angelo Pezzana
Informazione Corretta - 17 luglio 2015
La fine di un’era
Analisi di Mordechai Kedar
Informazione Corretta - 17 luglio 2015
La Corte Penale Internazionale fa storia e stravolge i principi del diritto
Analisi di Giovanni Quer
Corriere della Sera - 17 luglio 2015
L'accordo con l'Iran è un accordo con il terrorismo: un pericolo per tutti
Commento di Riccardo Pacifici
La Repubblica - 17 luglio 2015
Cosa cambia in Israele dopo l'accordo suicida con l'Iran
Commento di Fabio Scuto
Informazione Corretta - 17 luglio 2015
Quel che Israele deve imparare dalla crisi greca
Analisi di Manfred Gerstenfeld
La Stampa - 17 luglio 2015
Terrore sul mare: lo Stato islamico colpisce una nave egiziana nel Mediterraneo
Cronaca di Maurizio Molinari
Il Foglio - 17 luglio 2015
Con l'Iran Obama ha scommesso al buio, brutte sorprese in arrivo per l'Occidente
Paola Peduzzi intervista Ian Bremmer, direttore dell'Eurasia Group e geopolitologo
Libero - 17 luglio 2015
Il 'nuovo' Medio Oriente dopo gli accordi con l'Iran è molto peggiore di quello precedente: gli alleati degli ayatollah già all'opera contro Israele e Arabia Saudita
Analisi di Carlo Panella

17 giugno 2015

"ISRAELE HA RISPETTATO GLI STANDARD LEGALI INTERNAZIONALI", PAROLA DEGLI ESPERTI MILITARI INTERNAZIONALI

GAZA 2014: "ISRAELE HA RISPETTATO GLI STANDARD LEGALI INTERNAZIONALI", LA PAROLA DEGLI ESPERTI MILITARI INTERNAZIONALI
Il lavoro della controversa commissione Schabas-Davis, incaricata di indagare sulle violazioni dei Diritti Umani a Gaza durante la guerra dell’estate 2014, verrà presentato e discusso davanti al Consiglio per i Diritti Umani il 29 Giugno. L’organizzazione UN Watch ha ottenuto e pubblicato una copia dell’indagine preliminare condotta dal gruppo di alto livello militare internazionale sui fatti relativi al conflitto dello scorso anno. Il gruppo è stato diretto dal Generale Klaus Naumann, ex capo di Stato maggiore tedesco e presidente del comitato militare della NATO, e comprendeva dieci altre importanti personalità militari provenienti dagli Stati Uniti, Regno Unito, Olanda, Spagna, Italia, Australia e Colombia. Si tratta del primo gruppo multinazionale di alti ufficiali che ha visitato Israele per fare chiarezza sulla guerra del 2014 e a cui è stato concesso un livello di accesso alle fonti senza precedenti. Ecco alcuni passi del report...>>
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26 gennaio 2015

Ormai non ci sono alibi in EU, antisionismo e antisemitismo sono la stessa cosa: razzismo.

Report antisemitismo 2014: la Francia è il posto più pericoloso per gli ebrei

Secondo un report presentato dal governo israeliano il numero di incidenti antisemiti nel 2014 è cresciuto del 400% e la Francia, una paese dove a lungo ha vissuto una vasta comunità ebraica, è diventata la nazione più pericolosa dove vivere per un ebreo. Proprio in Francia gli incidenti sono raddoppiati rispetto allo scorso anno raggiungendo circa 1,000 casi di assalti, alcuni categorizzati come “estremamente violenti”, nei confronti di persone, luoghi di culto e attività commerciali ebraiche: pestaggi, assalti con coltelli, lanci di molotov contro sinagoghe e atti vandalici contro negozi ebraici sono ormai notizie di tutti i giorni in Francia.

ilan halimi giardino francia antisemitismo

Sebbene le forze neonaziste e neofasciste siano tutt’ora vive, la maggior parte degli attacchi è stata perpetrata da estremisti islamici e la maggior parte delle esternazioni di sentimenti antiebraici sono avvenute durante proteste, occorse durante l’operazione Margine Protettivo di questa estate, di segno politico totalmente opposto all’estrema destra. In molti casi, proprio durante queste manifestazioni, si è passati dalla critica al governo israeliano a slogan come “morte agli ebrei”.

Il report mostra come il 55% degli ebrei della Diaspora non si senta sicuro nei loro paesi natale e che stia pensando a trasferirsi in Israele. Il 70% degli appartenenti alle comunità del Sud America ha vissuto in prima persona o attraverso familiari almeno un incidente di matrice antisemita e ha la sensazione che le autorità non facciano nulla per contrastare questa situazione.

Anche nel mondo del web, soprattutto per quanto riguarda i social media, l’antisemitismo si sta espandendo e sono sempre di più i siti che ospitano materiale negazionista o che incita alla violenza contro gli ebrei. Proprio attraverso il web si manifesta maggiormente quello che è diventato l’argomento cardine dell’antisemitismo mondiale: la delegittimazione dello Stato d’Israele. Il mondo dell’Islam radicale in questi anni è stato molto abile a combinare gli stereotipi tipici dell’estrema destra, come la visione dell’ebreo influente in ambito finanziario,politico e mediatico o come la credenza che gli ebrei siano infedeli alla patria in cui vivono, alla demonizzazione di Israele attraverso la sua comparazione con il nazismo e alla diffusione di leggende, ad esempio la fantomatica volontà da parte degli ebrei di radere al suolo le sacre moschee di Gerusalemme, all’interno delle comunità musulmane europee e non.

La guerra a Gaza di questa estate è servita da catalizzatore per scatenare una serie di attacchi contro le comunità ebraiche della diaspora. Tutto ciò dimostra come il limite tra antisionismo e antisemitismo sia inesistente e che attraverso la critica ad Israele si vuole giustificare il latente antisemitismo della società europea.

Tra le formazioni politiche di estrema destra è in atto un cambiamento che le ha portate ad accantonare momentaneamente il tema ebraico per concentrare le proprie energie sull’immigrazione e l’islamofobia che in questo momento possono portargli più consensi a causa del dilagante terrore che organizzazioni come ISIS e al-Qaeda stanno diffondendo nelle società europee. Tra le eccezioni i partiti Alba Dorata in Grecia, che alle recenti elezioni si è addirittura posizionata come terzo partito, e gli ungheresi di Jobbik.

Nonostante dopo l’attentato al museo ebraico di Bruxelles i governi europei si siano cominciati a porre il problema dell’antisemitismo, l’Unione Europea a Dicembre ha scelto di rifiutare la richiesta di istituire una task force scatenando le reazioni delle comunità ebraiche. Recentemente il Presidente dell’European Jewish Congress Moshe Kantor ha affermato che “l’Unione Europea ha un urgente bisogno di combattere l’antisemitismo e di mettere la questione fra le sue priorità perché questo è un odio che travalica i confini e non può essere affrontato efficacemente da un singolo governo.”

3 dicembre 2014

Chi sono gli 'attivisti' occidentali che collaborano con i terroristi palestinesi

Dalla STAMPA di ieri, 02/12/2014, a pag. 17, con il titolo "Noi occidentali a Ramallah sfidiamo i fucili israeliani", l'intervista di Maurizio Molinari a cosiddetti "attivisti" occidentali, collaboratori delle frange più estreme del terrorismo palestinese.
 Dal suo pezzo i lettori possono conoscere i processi mentali che portano all'odio contro Israele.
 Ringrazio Molinari per farceli conoscere.

Attivisti dell'ISM: attivisti ? pacificisti ?
In Cisgiordania c'è una «legione straniera» di attivisti che ogni giorno si batte a fianco dei palestinesi contro gli israeliani e per incontrarla siamo entrati nella stanza numero 14 al primo piano dell'edificio «Kuwait» dell'ospedale di Ramallah dove è ricoverato l'agronomo italiano di 30 anni ferito al petto da un soldato durante gli scontri avvenuti venerdì a Kafr Qaddum, vicino Nablus.

Fra bandiere palestinesi, vasi di fiori e strumenti medici l'italiano che si fa chiamare Patrick Corsi è seduto assieme a Sophie, 31 anni di Copenhagen, Malia, 21 anni di Berlino e Karyn, 28 anni dello Stato di New York. Fanno parte di uno dei gruppi dell'«International Solidarity Movement» (Ism) ovvero la spina dorsale di «un centinaio di attivisti internazionali di più organizzazioni giunti qui per aiutare i palestinesi a far diminuire la violenza israeliana» spiega l'italiano.
Ascoltarli significa entrare nell'universo in cui vive questa pattuglia di attivisti accomunati dalla convinzione che il conflitto in Medio Oriente abbia come unico responsabile Israele: ciò che dicono e descrivono esprime una difesa estrema delle tesi palestinesi che si spinge fino a contestare la soluzione dei due Stati.

Anzitutto ognuno di loro premette di dare generalità false «perché altrimenti gli israeliani ci metterebbero in una lista nera e non potremmo più tornare dopo la scadenza del visto di 90 giorni» dice Malia. Patrick, con la maglietta «Palestina nel mio cuore» in realtà svelerà presto il vero nome perché vuole fare causa all'esercito israeliano per il proiettile che lo ha colpito nel petto: «L'azione legale vorrà punire il soldato e l'esercito per quanto avvenuto, e si svolgerà nella terra del 1948». II termine «terra del 1948» viene adoperato al posto di «Israele», contestandone la legittimità anche nel vocabolario.

«In Danimarca avevo molte amiche ebree e israeliane, amavo Tel Aviv - racconta Sophie - ma poi c'è stato il massacro di Gaza, sono voluta venire oltre il Muro e ora non voglio più tornare nella terra del 1948». Patrick ritiene che «anche Tel Aviv all'origine era un insediamento illegale», imputa «ai sionisti, e non agli ebrei, di aver progettato e realizzato il furto della terra palestinese» e crede che «la soluzione di questo conflitto arriverà quando i sionisti ammetteranno tale colpa e lasceranno ai palestinesi la scelta se vivere assieme oppure farli tornare negli Stati di provenienza».

In queste parole la negazione del diritto all'esistenza di Israele diventa palese. Anche Karyn, Malia e Sophie non credono nella soluzione dei due Stati - Israele e Palestina, secondo la formula di Oslo 1993 - per molteplici motivazioni: dalla «costruzione di insediamenti che sono città coloniali impossibili da smantellare» alla «necessità di vivere assieme, condividendo le stesse scuole anziché separarsi». Tali opinioni sono frutto di settimane di vita con i palestinesi. «Sono stata alle esequie di un bambino di 15 anni ucciso perché aveva lanciato una molotov contro dei soldati e ho assistito alla carica militare contro il corteo funebre» ricorda Karyn. «Ho incontrato la famiglia del palestinese che ha accoltellato un soldato a Tel Aviv ed ho visto la sua casa distrutta dai soldati, è umanità questa?» si chiede Sophie. «Sono stata nell'aula del tribunale militare di Salam dove ad un 17enne è stata rinnovata la detenzione amministrativa senza concedergli di parlare» aggiunge Malia, trattenendo a stento la commozione. «Sono andato a raccogliere le olive con i palestinesi perché gli ulivi sono la loro risorsa più importante ma i militari gli consentono di prenderle solo 2-3 giorni l'anno» afferma Patrick.

Sono esempi di una militanza che si declina in una miriade di interventi - dall'accompagnare i pastori nei terreni militari a dormire nelle case destinate alla demolizione fino a fotografare i soldati sui tetti delle case - per «diminuire la violenza contro i palestinesi» con azioni, assicura Patrick, «non violente, concordate fra noi e guidati da palestinesi». Anche un'altra italiana è stata ferita: Giulia, siciliana, un mese fa a Qalandya.

Per questi attivisti gli eroi sono Rachel Collie, Tom Hurndall e Vittorio Arrigoni ovvero i «caduti di Ism a Gaza»: i primi due morti nel 2003 e 2004 in incidenti con gli israeliani, il terzo ucciso nel 2011 dai salafiti palestinesi. Ad accomunare questi giovani è tanto la convinzione di «aiutare i palestinesi a far conoscere al mondo le loro sofferenze» quanto un'interpretazione degli attentati anti-israeliani, come l'assalto alla sinagoga di Har Nof in cui sono stati uccisi quattro rabbini, che Patrick riassume così nell'assenso generale: «Chi semina violenza, raccoglie violenza». Ovvero, nella «terra del 48» c'è il nemico.

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1 dicembre 2014

Negozio occidentale e bazar iraniano

da Informazione Corretta  un commento di Mordechai Kedar

Per ottenere ciò che si desidera in un bazar iraniano si devono seguire certe regole: se non sappiamo neppure che esistono, saremo di sicuro truffati.
Nel mondo di oggi esistono due tipi di mercati: il negozio occidentale e il bazar orientale. In Occidente, i negozi hanno prezzi fissi per le merci, la legge impone che il costo sia visibile su ogni articolo. Se si vuole veramente acquistare l’oggetto in vendita, il prezzo è uguale per tutti. Gli occidentali sono abituati a questo tipo di acquisti, è il motivo per cui molti cercano i negozi con i prezzi più convenienti.
Il prezzo non deriva dalla personalità del venditore o dall'identità dell’acquirente. Non si vedrà mai nessuno discutere su un prezzo in un negozio negli Stati Uniti, e chiunque lo facesse, sarebbe considerato un alieno, appartenente a un'altra cultura.
Al contrario, in Medio Oriente, la cultura del bazar è la regola e il rapporto tra acquirente e venditore si basa su norme culturali totalmente differenti: quanto il venditore ha proprio bisogno dei soldi,  quanto l'acquirente desidera la merce; quando il venditore teme che il compratore possa andarsene altrove; quando altri venditori stanno offrendo lo stesso articolo a un prezzo inferiore, quando l'acquirente può fare a meno della merce, quando ci sono altri commercianti con oggetti simili e l'acquirente potrebbe facilmente rivolgersi a loro. In questi casi  il prezzo scende.

Se il venditore non ha bisogno di soldi, e l'acquirente vuole davvero la merce e soprattutto se dice che è disposto a pagare qualunque prezzo per averla, in questi casi il prezzo sarà alto. Queste motivazioni hanno un ruolo centrale nel determinare il prezzo delle merci.

Immagine in linea con il testo

Nella cultura del bazar mediorientale pesa un altro fattore, molto importante, quello personale. L'acquirente e il venditore vogliono vedersi, toccarsi, parlarsi, ascoltarsi.
Il contatto interpersonale, il sorriso, la stretta di mano, le parole di benvenuto, le domande e le risposte, la famigliarità, il linguaggio del corpo, sono parti integranti delle trattative sul prezzo. Un accordo non è solo un atto economico, ma un evento, quasi come un matrimonio.
 Nulla ha a che fare con l'economia: se il venditore non è simpatico all'acquirente, perché lè, per esempio, ebreo, cristiano, sciita, sunnita, curdo, persiano, turco o membro di un qualsiasi gruppo che non piace al cliente, non si compra da lui, anche se l'articolo è in pratica gratuito.

Un occidentale, un turista, che entri in un bazar mediorientale, resta inebriato dagli odori, disorientato, stordito dai colori, eccitato dalla musica, infastidito dalla folla, e alla fine compra una cosa qualsiasi perché i prezzi sono bassi, solo per scoprire quella stessa notte, nel suo hotel, di averla strapagata, che la vernice si sta staccando e che l’oggetto sta andando in pezzi o è deteriorato.
Inoltre, scopre che è fatto in Cina e che avrebbe potuto acquistarlo su internet per la metà di quel che ha pagato.
Perché è successo tutto questo? Perché il turista non conosceva le regole del bazar e i commercianti se n’erano accorti a un miglio di distanza. A loro non importa di ingannarlo perché lui è un cristiano, un americano, uno straniero che paga quello che gli si chiede e non conosce le regole. Sanno anche che fa parte di un gruppo di turisti con un tempo limitato per fare acquisti nel bazar e che quindi corre da un banco all’altro, al fine di riuscire a comprare più oggetti possibili. Non contratta perché non ne ha il tempo e perché non è abituato a farlo a casa sua. Pensa che sia umiliante 

I negoziati che si stanno svolgendo nell’arco degli ultimi sedici anni tra l'Iran e l'Occidente, sono un perfetto esempio del baratro culturale fra i negoziatori occidentali e le loro controparti iraniane, esperti di negoziazione nel bazar, dove il nascondere informazioni e l’inganno sono i principi fondamentali della loro cultura sciita. 

Le differenze tra le abitudini di un turista e la cultura del bazar persiano hanno portato all’amaro risultato che ha dato agli iraniani quello di cui avevano più bisogno: il tempo. Hanno pagato il prezzo di un paio di sanzioni che ora vedono scomparire. E, ancora più importante,  hanno concesso pochissimo in termini di limitazione dei loro piani militari nucleari.
Gli iraniani hanno giocato dall’inizio alla fine il ruolo del venditore, quello che non ha bisogno di liberarsi della propria merce, non ha fretta. Hanno venduto più volte merci avariate sotto forma di accordi che non mantengono, e l'Occidente non è giunto all’ovvia conclusione: che sono ciarlatani professionali, bugiardi incalliti e brillanti prevaricatori. 
Il motivo è che sono gli unici venditori sul mercato, almeno così sembra ai leader occidentali,  si  deve raggiungere un accordo con l'Iran ad ogni costo.
Gli iraniani non temono che qualcun altro possa prendere il loro posto, perché dovrebbero comportarsi in modo diverso? L'Occidente ha svolto il ruolo del turista ottuso che va a far compere nel bazar iraniano; i leader delle potenze mondiali hanno inviato segnali di preoccupazione all’avvicinarsi delle scadenze, perché dovevano tornare dai loro elettori con la prova di aver raggiunto un accordo di pace “secondo la nostra tempistica”.
Gli iraniani  lo hanno percepito e hanno alzato il prezzo, abbassato la qualità e venduto agli occidentali degli accordi che non avevano alcuna intenzione di mantenere.
Hanno indebolito i negoziatori, con una tattica ben nota: hanno offerto qualcosa, una sorta di concessione che l'Occidente ha colto al volo solo per scoprire, dopo, che non aveva niente a che fare con la questione che si stava trattando.

Hanno contato di più i sorrisi sul volto di Rouhani, che gli davano la possibilità di mostrare che lui non è Ahmadinejad, che è un uomo nuovo, bello, gentile e non gli si può assolutamente indirizzare contro nulla, perché lui non è un estremista. Lui è uno di noi, perché parla inglese, naviga sul web e utilizza uno smartphone.
Zarif ha continuato a dare questa impressione. Il bazar iraniano è stato un successo clamoroso, e il turista occidentale - che non conosce le regole - ha perso ancora una volta: ha pagato il prezzo di concedere agli iraniani più tempo e non ha ottenuto la merce che voleva, perché non ha un accordo e non è certo che ne otterrà mai uno, dato che l'Iran, con altri sette mesi, prima di allora avrà la bomba.

L'Occidente non capisce il fatto più ovvio: c'è solo una cosa che può fare pressione sull'Iran e che l'Occidente non è disposto a fare, minacciare cioè la prosecuzione del dominio degli Ayatollah. L'Occidente non ha mai usato quella carta per ottenere il suo scopo, quindi perché gli Ayatollah dovrebbero pagare per un accordo che non vogliono?

La cosa peggiore è che ci sono stati quelli che avevano avvertito le potenze occidentali che sarebbero cadute nella fossa del bazar iraniano.
Uno di loro era Benyamin Netanyahu, ancor prima di diventare Primo Ministro di Israele. Harold Rhode lo ha scritto in modo chiaro e così ha fatto l'autore di questo articolo.
Il problema di chi ha negoziato con gli iraniani è aver creduto di sapere come si  comportano gli iraniani, hanno creduto alle loro  bugie e agli inganni di consumati professionisti.

La Storia purtroppo metterà in ridicolo come un paese ribelle e testardo abbia potuto gettare fumo negli occhi a negoziatori intelligenti, ben educati e potenti, che sono stati psicologicamente incapaci di usare il loro potere e sono rimasti irretiti nella trappola del bazar iraniano, dove solo chi ne conosce le regole può sopravvivere.


 Mordechai Kedar è lettore di arabo e islam all' Università di Bar Ilan a Tel Aviv. Nella stessa università è direttore del Centro Sudi (in formazione) su Medio Oriente e Islam. E' studioso di ideologia, politica e movimenti islamici dei paesi arabi, Siria in particolare, e analista dei media arabi

17 novembre 2014

I TERRORISTI UCCIDONO ma l'UE VUOLE SANZIONARE ISRAELE



Israele è ancora e nuovamente preda degli attivisti del terrore.
Ammazzati per mano di terroristi palestinesi in strada e alle fermate degli autobus i suoi cittadini muoiono. 
I cittadini israeliani ebrei sono aggrediti in auto e usando le auto, oppure con i coltelli, i cacciavite, per ucciderli. 

Ma la violenza contro la gente ebrea si manifesta anche in Europa: ad Anversa sabato un 30enne belga è stato accoltellato.

In tale situazione sarebbe logico pensare che l'Unione Europea abbia condannato fermamente e a gran voce gli attentati terroristici, riconoscendo le gravissime responsabilità di Abu Mazen e di Ismail Hanyeh, leader del West Bank e di Gaza, coloro che continuano a incitare il popolo allo scontro esaltando i "martiri" (*).


Invece nulla, solo un comunicato alla buona del portavoce di Federica Mogherini, troppo impegnata dal suo nuovissimo incarico di lady Pesc per chiedere di smetterla con le violenze ma tantomeno per minacciare ai leader palestinesi il blocco dei fondi UE nel caso scorresse ancora sangue nelle vie di Tel Aviv e di Gerusalemme.

Anzi, due giorni fa l'Unione Europea, in un documento indirizzato a tutti i 28 Stati membri, ha minacciato che imporrà allo Stato ebraico nuove sanzioni nel caso non smetta immediatamente di costruire abitazioni nei quartieri ebraici di Gerusalemme est. Queste aree vengono definite erroneamente "colonie", mentre in realtà sono solo zone periferiche della capitale di Israele, stato sovrano ( ancorché Hamas e Abu Mazen oltre l'Iran si rifiuti di riconoscerne l'esistenza) a cui nessuno deve né può imporre dove costruire e dove no. Insomma oltre il danno la beffa.


Invece di sanzioni per la vecchia e nuova escalation di violenza, come sarebbe logico, l'UE destina fior di milioni di finanziamenti ai terroristi di Hamas per ricostruire Gaza, distrutta da una guerra provocata dagli stessi terroristi.

Così ancora una volta ( già dai tempi di Arafat) una considerevole quantità di denaro fresco e copioso rastrellato dalle tasche dei cittadini UE viene riversato nelle tasche di Abu Mazen e della sua amministrazione corrotta, di Ismail Hanyeh, i quali tengono il popolo in miseria per prendersi prebende principesche e stipendiare i terroristi, che poi finiscono negli ospedali e nelle carceri israeliane.

Ovvero l'UE premia e non sanziona neanche moralmente gente che si affanna ogni giorno a propagandare quella cultura della violenza che dovrebbe teoricamente esser considerata sideralmente lontana dalla cultura europea ed occidentale alla base del concetto stesso di EUROPA.

Stoccaggio delle pietre nella moschea (in alto) per la sceneggiata del venerdi (in basso)

(*)
il cacciavite usato per uccidere 
  
È passata solo qualche ora dal tentato omicidio commesso con un cacciavite che i media palestinesi ne fanno la promozione pubblicitaria  per stimolare altri attacchi contro gli israeliani.

Hamas ha benedetto il "gesto eroico" perchè "è la naturale conseguenza dei crimini israeliani".
Da qui, l'evidente continuità di pensiero e d'azione tra Fatah e Hamas contro Israele.

L'università palestinese consegna una onoreficienza alla famiglia di Abed a-Rahman a-Shaludi, ucciso dopo aver compiuto il suo "atto eroico" lo scorso ottobre alla fermata del tram di Gerusalemme nel quale morirono una neonata di tre mesi e una ragazza di 22 anni.

4 novembre 2014

Tg News Watch: parte il 31 ottobre la nuova rubrica a cura di Deborah Fait su Informazione Corretta

30.10.2014Tg News Watch: parte il 31 ottobre la nuova rubrica a cura di Deborah Fait
Contro la disinformazione e la menzogna omissiva su Israele in telegiornali e trasmissioni televisive

Testata: Informazione Corretta
Data: 30 ottobre 2014
Pagina: 1
Autore: La redazione
Titolo: «Tg News Watch: parte il 31 ottobre la nuova rubrica a cura di Deborah Fait»
Tg News Watch: il 31 ottobre è partita la nuova rubrica a cura di Deborah FaitContro la disinformazione e la menzogna omissiva su Israele in telegiornali e trasmissioni televisive
A partire dal 31/10/2014, inizia su Informazione Corretta la nuova rubrica a cura di Deborah Fait "Tg News Watch".
La prima puntata sarà dedicata alla trasmissione "Palestina. Storia di una terra", andata in onda su RAI STORIA sabato 18/10/2014 e sabato 25/10/2014.
Deborah Fait fa una
analisi critica della trasmissione, denunciando la disinformazione e la menzogna omissiva con cui viene colpita Israele.

http://www.informazionecorretta.it/main.php?sez=90

10 luglio 2014

9 luglio 2014 - Le Forze di Difesa Israeliane mantengono il confine di Gaza aperto...

striscia di Gaza
attività di traversata ( del confine)
 mercoledì 9 luglio 2014

1.228 tonnellate di cibo 
390.000 litri di carburante 
3 camion di forniture mediche

  mentre i razzi cadono su  Israele 
le IDF ( Forze di Difesa Israeliane ) mantengono aperto il valico di frontiera di Gaza 

Forze di Difesa Israeliane 
Nonostante il fatto che 120 razzi sono stati sparati contro Israele da questa mattina da Gaza, stiamo mantenendo il valico di confine aperto per il passaggio dei beni essenziali.

6 maggio 2014

Quale futuro per gli ebrei in Ucraina ?

dal BOLLETTINO  della Comunità ebraica di Milano, da pag. 8 a pag.15, due articoli di Anna Lesnevskaya, con i titoli "Kiev: gli ebrei tra due fuochi " e "L'orgoglio ritrovato degli ebrei di Mosca".
 E' la prima, approfondita analisi sulla situazione degli ebrei nei due paesi, un futuro che si prospetta denso di pericoli.

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Servono a poco le smentite da parte dei due governi, l'antisemitismo è in forte crescita, come dimostrano gli attacchi alle sinagoghe, il più recente in Ukraina, a Nikolajev, nell'est, dove una sinagoga è stata attaccata nottetempo a colpi di bottiglie incendiarie, scagliate contro l'ingresso e le finestre. Così come la schedatuta degli ebrei, un ordine impartito ieri dalle autorità filo-russe di Donetsk, riferita da un pezzo sulla STAMPA del 18/04, leggibile al link: http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=6&sez=120&id=53099.

Ecco i due articoli di Anna Lesnevskaya:

Kiev: gli ebrei tra due fuochi
   

«Ho una paura innata di qualunque tipo di nazionalismo. In Galizia, che all’epoca faceva parte della Polonia, i miei bisnonni sono stati sgozzati dai nazionalisti». Yulia Grishchenko, Rabbino capo della comunità Reform di Odessa, spera che presto le piazze della sua città si plachino, allontanando il suo antico terrore. Non solo nel porto sul Mar Nero – una volta centro di una vivacissima, fiorente e ricca comunità ebraica, popolato oggi da circa 30 mila ebrei -, ma anche ovunque in Ucraina, la tensione tra Mosca e il nuovo governo di Kiev ha resuscitato le peggiori preoccupazioni della Comunità ebraica. Mentre lo stillicidio di aggressioni contro gli ebrei negli ultimi due mesi ha spinto le sinagoghe e altre istituzioni ebraiche del Paese a rafforzare le misure di sicurezza. La memoria storica degli orrori del passato non è mai scomparsa. Durante la Shoah sono morti un milione e 500 mila ebrei ucraini, più della metà della popolazione dell’attuale territorio della repubblica ex-sovietica. Ora, dopo, l’aliyà di massa o l’esodo verso gli Usa, con l’avvento della Perestrojka, in Ucraina sono rimasti circa 300 mila ebrei, secondo i dati del Vaad ucraino. Una cifra ancora imponente, che fa di quella ucraina una delle più numerose e importanti Comunità del mondo.


Kiev, la Sinagoga Centrale
Gli ebrei ucraini sono stati da sempre vittime dei pogrom. Proprio Odessa, un secolo fa, ne ha conosciuto uno dei peggiori: nell’ottobre del 1905, 400 ebrei furono uccisi dai membri dell’organizzazione russa nazionalista e antisemita, le Centurie nere. Si incolpava la popolazione ebraica di aver scatenato e pilotato la Rivoluzione del 1905. Dietro ogni cambiamento politico, dietro ogni situazione di disagio sociale, in Ucraina, le teorie antisemite del complotto hanno sempre coinvolto le Comunità. Sta accadendo puntualmente anche questa volta.
«Sui mezzi pubblici e gli autobus di Simferopoli, in Crimea, si parla male degli ebrei, e tutti ripescano i soliti vecchi schemi di pensiero: dicono che sono gli ebrei la mente che si cela dietro le proteste di piazza Maidan a Kiev», racconta Mikhail Kapustin, Rabbino della comunità riformata della città della Crimea. Nella penisola sul Mar Nero, i Reform prevalgono su altre correnti del giudaismo, diversamente dal resto del Paese, dove la comunità più forte è invece quella dei chassidim Chabad-Lubavitch. Il 28 febbraio scorso sono state proprio le porte della sinagoga Reform di Simferopoli, quella del rabbino Kapustin, ad essere imbrattate da svastiche e da una scritta antisemita: “Morte agli zhid (parola dispregiativa che indica gli ebrei e considerata un grande insulto, ndr)”. «È una provocazione che vuole coinvolgere gli ebrei nel conflitto tra gli ucraini e i filorussi», commenta il rabbino.

Parola d’ordine: diffidare



La fossa comune del massacro di Babi YarAncor prima che la Crimea, col referendum del 16 marzo, decretasse a maggioranza bulgara (97 per cento) la volontà di annessione alla Russia, Kapustin ha deciso che presto avrebbe fatto le valigie: «Non mi piace quello che sta succedendo qui. Voglio portare la mia famiglia in un posto sicuro il prima possibile».
La penisola, oggi al centro del conflitto tra Mosca e Kiev, negli Anni Venti del secolo scorso sembrava una terra promessa per gli ebrei ucraini. Grazie all’aiuto economico del Joint Distribution Committe e col benestare del Pcus, si sono sviluppate in queste zone delle comunità agricole in stile kolkhoz o kibbutz, nelle quali si trasferivano gli ebrei vittime dei pogrom. Tra di loro c’era anche il nonno di Anatolij Gendin, presidente dell’Associazione delle organizzazioni e delle comunità ebraiche della Crimea. È stato lui a scoprire le scritte antisemite sulla sinagoga riformata di Simferopol e a notare sul nastro della video-sorveglianza che a compiere l’atto è stato un giovane incappucciato. Alle 4 del mattino aveva scavalcato l’inferriata per poi tracciare i graffiti razzisti sulla sinagoga. «Dei gruppi estremisti stanno cercando di fomentare il conflitto razziale tra i nostri popoli. Ma non ci sono riusciti. In tanti mi hanno contattato offrendo di dare una mano per ripulire le porte della sinagoga», racconta Gendin che ha accolto con soddisfazione i risultati del referendum per l’annessione della Crimea alla Russia. «Nessuno mi convincerà che il leader del partito ucraino Svoboda, Oleg Tyagnibok, non è un antisemita. Sta cercano di dimostrarsi tollerante per non perdere gli elettori», sostiene Gendin, diffidente verso il nuovo governo di Kiev.

Piazza Maidan, Kiev
Il leader di Svoboda, una delle forze presenti nella protesta di Piazza dell’Indipendenza a Kiev (Maidan Nezalezhnosti), è noto per le sue frasi xenofobe. Oltre al partito Svoboda, che nel 2012 è entrato nel Parlamento ucraino, alle proteste di piazza Maidan ha partecipato anche un altro movimento nazionalista, il Settore Destro (Pravyj sektor). Tuttavia il suo portavoce, Artem Skoropadskij, ha negato in un’intervista ogni accusa di xenofobia: «Siamo contro il liberalismo radicale dell’Europa, la socialdemocrazia, il razzismo e l’antisemitismo. Siamo cristiani e nazionalisti».

Elezioni a maggio
Eduard Dolinskij, il presidente esecutivo del Comitato ebraico ucraino, organizzazione creata dalla comunità imprenditoriale per contrastare l’antisemitismo, prende con una certa cautela le dichiarazioni del Settore Destro (Pravyj sektor): «A maggio ci saranno le elezioni presidenziali e in seguito anche il voto per eleggere il nuovo Parlamento. Non escludiamo che nel corso della campagna elettorale gli slogan antisemiti possano riemergere». Per quanto invece riguarda il partito Svoboda di Tyagnibok, il Comitato ebraico ucraino ha più volte espresso preoccupazione per il suo ingresso nel Parlamento.
«Svoboda richiama l’antisemitismo nel suo programma elettorale», commenta Dolinskij. Rimane tuttavia scettico riguardo alle accuse di xenofobia contro piazza Maidan e il nuovo governo di Kiev, reiterate dal presidente russo, Vladimir Putin: «In Ucraina gli antisemiti ci sono, ma le dichiarazioni della Russia sulla discriminazione degli ebrei da parte del nuovo governo sono ridicole e senza fondamento».

Le aggressioni
Infatti, come spiega lo stesso Dolinskij, rimane tutt’ora ignota l’appartenenza politica delle persone che negli ultimi mesi hanno effettuato gli attacchi contro gli ebrei nella capitale ucraina. L’11 gennaio scorso, nell’androne del suo palazzo è stato pestato un insegnante di lingua ebraica, cittadino israeliano, pedinato mentre rincasava, dopo essere stato alla sinagoga di Rozenberg, nota anche come sinagoga Podol, in via Shchekavitskaja. Qualche giorno dopo, il 18 gennaio, vicino alla sinagoga è stato aggredito un talmid-yeshivà, uno studente di yeshivà, cittadino russo, Dov-Ber Glickam, 30 anni, che è stato ferito con un coltello. Infine, alla vigilia del referendum in Crimea, una coppia di coniugi è stata assalita per strada da un gruppo di giovani e salvata solo grazie a un taxi che stava transitando da quelle parti e che l’ha portata fin dentro la sinagoga. In seguito a questi attacchi, il Comitato si è rivolto al governo israeliano e alle organizzazioni ebraiche internazionali, chiedendo di rafforzare la guardia di sicurezza delle sinagoghe e di altri luoghi frequentati dagli ebrei.
La nota dolente è che è quasi impossibile verificare la totalità delle aggressioni antisemite in Ucraina. «Non c’è un sistema di monitoraggio, né un corpo di polizia speciale che si occupi dei delitti a sfondo razziale. Conosciamo solo i casi che coinvolgono gli ebrei iscritti alla Comunità, mentre tanti altri episodi possono rimanere nell’ombra perché non vengono denunciati», spiega Dolinskij.
«La comunità ebraica in Ucraina è stata usata dalla propaganda russa», ha dichiarato il Rabbino capo di Kiev, Yaakov Dov Bleich, nel corso di una conferenza stampa al Palazzo di Vetro di New York. «Per 22 anni ci siamo sentiti al sicuro in Ucraina», ha detto il rabbino, aggiungendo: «I russi dicono che sono venuti a proteggerci? La Comunità ebraica non ha bisogno della loro protezione». Dov Bleich ha sottolineato quindi che la questione «non è cosa farà l’Ucraina, ma cosa farà Mosca».
In un appello al presidente Vladimir Putin, nel quale gli si chiede di non intervenire in Ucraina, la Comunità ebraica di Kiev si era chiaramente schierata dalla parte di piazza Maidan e contro Yanukovytch, negando qualsiasi coinvolgimento degli attivisti “rivoltosi” negli attacchi antisemiti. Al contrario, invece, proprio i media russi filo-Cremlino insistono nel definire i manifestanti dei “fascisti” o dei “nazisti”. «Maidan è uno spazio di dignità e di libertà. Erano gli attivisti stessi a presidiare le sinagoghe per evitare attacchi», racconta Leonid Finberg, presidente del Centro giudaico presso l’Accademia Mohila. Sua moglie Elena, un medico, anche’essa ebrea, ha fatto la volontaria nell’ospedale improvvisato per curare gli attivisti feriti.

Nuove ingiurie
Un altro volto di “piazza Maidan” lo racconta Stanislav Kraslavski, imprenditore ebreo, originario di Dnepropetrovsk nell’Ucraina orientale ma che vive in Italia. Un suo caro amico ebreo si è offerto di fare il volontario nella cucina sociale improvvisata in piazza per dare aiuto ai manifestanti. «Quando si è presentato, gli hanno chiesto se era ebreo e quando ha detto di sì, gli hanno risposto che quella non era una rivoluzione per gli zhijd», spiega Kraslavski. Teme, però, che gli ebrei possano subire delle persecuzioni soprattutto nell’Ucraina Orientale, «per mano dei banderovtsy”. Quest’ultimo è il termine usato dai filorussi per definire tutti i nazionalisti ucraini. Nasce dal nome dei seguaci di Stepan Bandera, il padre fondatore del nazionalismo ucraino e dell’Esercito insurrezionale che collaborò con i nazisti nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Durante la rivolta di Kiev è stata coniata, ancora, un’altra parola rimbalzata sui social network, zhidobanderovtsy. Come dire il non plus ultra dell’ingiuria. Unisce un riferimento offensivo per gli ebrei a quello verso i nazionalisti ucraini. La usano i filorussi per indicare i “responsabili” della rivolta, ma anche, parlando di sé ironicamente, gli stessi ebrei che hanno partecipato alle proteste di piazza.
Inutile dire che il mondo ebraico riflette, anche in questo caso, le contraddizioni delle posizioni presenti nel Paese. Un Paese, quello ucraino, spaccato tra voglia di Europa e vecchio attaccamento russo con, a dominare su tutto, un fitto intreccio di potenti interessi economico-militari.

In piazza, insieme agli altri
Ma torniamo alla cronaca. Va detto ancora che, forse casualmente, tra le persone che sono morte nel corso degli scontri del 19 e 20 febbraio 2014, colpite dai cecchini, c’erano anche tre ebrei. Tra di loro, Aleksandr Shcherbanjuk, 46 anni, che apparteneva alla comunità giudaico-messianica di Cernovtsy, nell’Ucraina occidentale. La segretaria della Comunità Beit Simcha, Aljona, che conosceva Aleksandr, racconta che era partito per Kiev ai primi di gennaio per sostenere i manifestanti contro Yanukovytch. Ci andò insieme a un suo amico, prete ortodosso, per pregare e portare i testi sacri a chi si trovava in piazza. È stato colpito al cuore da un cecchino e sepolto con la kippah in testa e con l’elmetto di protezione che indossava sopra la papalina, insieme alla maschera antigas, il tutto riposto compostamente nella bara. Ha lasciato un figlio che frequenta la scuola ebraica della città, mentre sua figlia ha già preso la maturità. «A Cernovtsy, come altrove, gli antisemiti ci sono sempre stati, non è che sia cambiato qualcosa con la vittoria della rivolta», commenta Aljona della Comunità Beit Simcha.
Tra i manifestanti c’era anche un’ex ufficiale di Tsahal, un ebreo ortodosso, che guidava un gruppo di 30 persone. Lo sostiene Josif Zisels, presidente del Vaad dell’Ucraina, che dice di conoscerlo personalmente, anche se non può svelare il suo nome.
Ai tempi dell’Unione Sovietica, Zisels era uno dei leader ucraini del Movimento ebraico ma anche del Movimento dissidente: oggi è convinto che «le aggressioni antisemite a Kiev sono delle provocazioni organizzate dai servizi russi e dal presidente destituito dell’Ucraina, Viktor Yanukovytch, per destabilizzare la situazione e screditare prima l’opposizione e ora il nuovo governo di Kiev». Lo stesso Zisels cerca di sfatare lo stereotipo secondo il quale i nazionalisti ucraini sono atavicamente e storicamente nemici degli ebrei. Ricorda l’aiuto reciproco che si sviluppava tra i prigionieri politici ucraini e gli ebrei, tra i quali c’era anche lui, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, durante la stagnazione sovietica di Breznev e Andropov. La lotta contro il governo sovietico, che reprimeva qualsiasi forma di nazionalismo, aveva avvicinato gli attivisti ebrei alla popolazione ucraina. Tanto che, alla prima grande manifestazione nella cava di Babij Jar, nei pressi di Kiev (qui durante l’occupazione tedesca furono uccisi e ammassati più di 100 mila ebrei), a pronunciare il discorso più significativo è stato proprio un critico letterario e dissidente ucraino, Ivan Dzjuba. Nel 1966, nella ricorrenza dei 25 anni dell’eccidio, circa 2 mila persone si sono radunate, senza autorizzazione, nella cava ancora piena di ossa mescolate con il fango del cantiere spuntato lì per cancellare la memoria della tragedia. Rivolgendosi alla folla, Dzjuba disse: «Babij Jar è una tragedia di tutta l’umanità, ma è accaduta sulla terra ucraina.
Per questo motivo, un ucraino non ha il diritto di dimenticarla, così come non ne ha un ebreo.
Babij Jar è una nostra comune tragedia, fa parte della memoria del popolo ebraico e di quello ucraino, insieme, uniti».

L'orgoglio ritrovato degli ebrei di Mosca
   

                                                        La Sinagoga Corale di Mosca

“Gli ebrei del silenzio”: così lo scrittore e premio Nobel per la Pace, Elie Wiesel, di ritorno da un viaggio nell’Unione Sovietica nel 1965, aveva definito la popolazione ebraica dei Soviet. Bisognava aspettare gli anni Ottanta e la Perestrojka perché le porte, rimaste chiuse per lunghi anni agli ebrei sovietici, si aprissero. In tanti hanno fatto l’aliyà, ma oltre ogni previsione, in molti sono rimasti nella nuova Russia. Nella sola città di Mosca, secondo l’ultimo censimento del 2010, risiedevano 53145 ebrei, ma il dato reale potrebbe superare di gran lunga le statistiche ufficiali. La comunità ebraica della capitale russa non può certo più definirsi silenziosa, ha un ruolo importante nella vita politica e gode di un vivace rinascimento religioso. «Noi siamo i ba’al teshuvah, ossia coloro che hanno fatto ritorno alla loro fede ebraica», racconta Aleksandr Bukhman, cineasta, che frequenta il Centro ebraico comunitario di Mosca (Meots) nella zona di Marjina Roshcha. L’edifico moderno di sette piani, con all’interno la sinagoga Beis-Menahem, è il fulcro del movimento Chabad-Lubavitch, il più diffuso a Mosca, tra le altre varianti del giudaismo chassidico. La corrente mistica, nata nel Settecento e fiorita negli shtetl, è tutt’ora fortissima sul territorio dell’Europa Orientale. «Sono ritornato alle mie radici ebraiche e al giudaismo grazie ai tedeschi», racconta Bukhman, che durante i Soviet era emigrato con la famiglia in Germania, per poi ritornare otto anni fa in Russia, dove si è sposato con una ragazza ebrea. «I miei compagni di scuola tedeschi sapevano che ero un ebreo e mi facevano tante domande a cui non sapevo rispondere. Come diceva il Rebbe (Menachem Mendel Schneerson, ndr) gli ebrei cresciuti nel socialismo sono una generazione perduta, perché hanno smarrito la loro identità».



Riccardo Calimani " Passione e Tragedia", storia degli ebrei russi
Dopo il socialismo è arrivato il caos economico degli anni Novanta, che lasciava poco spazio alla riflessione a chi cercava di sopravvivere. Solo con la stabilità degli anni Duemila, le persone hanno iniziato a sentire che dentro di loro mancava qualche tassello, che al posto dei valori profondi c’era un vuoto. In quegli anni, tanti ebrei di Mosca hanno cercato la loro identità nella religione e nelle loro origini. Il processo coinvolse persino gli oligarchi, che hanno consolidato enormi ricchezze quando il capitalismo selvaggio subentrò alla consueta pianificazione dall’alto dell’economia sovietica. Storicamente privi della possibilità di entrare a far parte della nomenklatura del Pcus a causa della loro “nazionalità”, gli ebrei hanno avuto modo, nei decenni del Novecento, di allenare il loro spirito imprenditoriale lanciandosi nelle prime attività commerciali. «Tante persone ricche che incontravo avevano un serio problema di valori positivi e di auto-identificazione. All’improvviso hanno capito che tutto quello che c’era di buono nella loro vita era legato alla loro origine ebraica, alle tradizioni, alle feste. Ma solo nella comunità hanno percepito i veri valori collettivi e sentito uno spirito di condivisione», racconta Motya Chlenov, vicedirettore esecutivo del Congresso ebraico russo (Rek) e figlio di Mikhail Chlenov, uno dei padri fondatori del movimento ebraico post-sovietico.
Non stupisce quindi che lo Shabbat al Centro Chabad-Lubavitch di Mosca raccolga fino a 700 persone ogni venerdì sera. Nelle varie sale si formano tanti gruppetti: i giovani, gli israeliani, gli americani. Il cholent e il cibo della tradizione ashkenazita è generoso, si balla e si canta in ebraico e in russo. Nathan Gorelik, amico di Bukhman, pronuncia con attenzione la preghiera in ebraico prima di iniziare il pasto. È sbarcato in sinagoga per la prima volta nel 2007, per poi diventare un fervente neofita. Al centro Chabad l’aveva portato un curioso destino: è che scopre che suo nonno paterno era uno dei fedelissimi del Rebbe di Lubavitch. Nathan, infatti, è cresciuto in Uzbekistan, Paese che durante la Seconda Guerra Mondiale aveva accolto molti chassidim in fuga dall’avanzata dei tedeschi. Tra di loro c’era anche Nanson, il nonno di Nathan, che poi ha lasciato l’Asia Centrale raggiungendo il Rebbe in America, il settimo e ultimo Rebbe di Lubavitch.
Nell’Urss il movimento chassidico era stato messo all’indice, l’unica a rimanere aperta a Mosca durante il periodo sovietico era la più antica Sinagoga Corale di Mosca, situata in Bolshoj Spasoglinishchevskij pereulok (all’epoca, ulitsa Arkhipova), nella zona centrale della città, a Kitaj Gorod. La Sinagoga Corale, come accade tuttora, era il punto di riferimento per gli ebrei lituani, noti come litvak, una corrente ortodossa, che risale alla tradizione di Vilnius – avversa ai chassidim -. Proprio davanti alla sinagoga, eretta su una piccola sommità (gorka, in russo), si davano appuntamento gli ebrei moscoviti nel secondo dopoguerra. Proprio sul Gorka, durante gli anni delle repressioni antisemite del Pcus alternate da pochi barlumi di speranza, è nato e si è formato il Movimento ebraico.

Tutti rivoluzionari

Ma facciamo – a larghi cenni – un po’ di Storia. Protagonisti in prima linea durante la Rivoluzione russa bolscevica del 1917 (l’appoggio ebraico fu capillare e molti leader erano ebrei), la situazione tuttavia non migliorò sostanzialmente rispetto alla loro vita nella Russia zarista. Ottennero appena di potersi spostare al di fuori dei confini occidentali dell’Impero russo, andando oltre la cosiddetta Zona di residenza, dov’erano stati segregati. Ma, com’è noto, l’antisemitismo non cessò, anzi. In una prima fase, il nuovo potere vietò l’uso della lingua ebraica promuovendo lo yiddish, considerato l’idioma del proletariato finché, negli anni Trenta, le scuole ebraiche non chiusero i battenti anche a Mosca, come già era accaduto nel resto del Paese. Era stata invece creata un’alternativa sovietica al nascente progetto di uno Stato ebraico in Eretz Israel. Si trattava della celebre Regione autonoma ebraica del Birobidjan, territorio nell’Estremo Oriente russo, fondata per raccogliere la popolazione ebraica dell’Urss. Mentre il vero sogno di un’autonomia ebraica, da fondare in Crimea, promossa dal direttore del Teatro Nazionale ebraico e attore Solomon Mikhoels, non si realizzò mai. Mikhoels fu un personaggio mitico, amatissimo, carismatico: fu ucciso dai servizi nel 1948, e dopo il suo assassinio venne sciolto anche il Comitato antifascista ebraico che egli stesso presiedeva, creato dal Pcus durante la Guerra a puro scopo ingannevole e di propaganda.

Il 1949 è stato l’annus horribilis per gli ebrei sovietici. Dopo la fondazione dello Stato di Israele, Stalin comprese ben presto che la neonata nazione non sarebbe diventata una carta da giocare nello scacchiere del Medio Oriente. Ed è stato allora che la scure dell’antisemitismo si abbattè in maniera radicale sulla popolazione ebraica dell’Urss. Nel 1949 fu avviata la cosiddetta “campagna per la lotta al cosmopolitismo”. Prendeva di mira l’intelligentzia ebraica, soprattutto nelle grandi città come Mosca. L’accusa era quella di compiacenza verso l’Occidente ed era sufficiente per far perdere il posto di lavoro, specie ad attori, scrittori, registi, artisti, intellettuali, professori, accademici di origine ebraica, per poi mandarli al gulag. Del 1950 è un’altra pagina nera: fu avviato un altro clamoroso processo, tristemente noto come “il complotto dei medici”. Si basava sulla teoria di un’intesa tra i medici ebrei di Usa e Inghilterra per far fuori i gerarchi del Partito e addirittura Stalin stesso. In tutto, nell’ambito dell’inchiesta, erano stati arrestati 37 medici, tra cui 28 ebrei. Solo con la morte di Stalin nel 1953 si fermò la macchina repressiva contro gli ebrei e i medici arrestati furono rilasciati.
Ma è col disgelo che nascono i primi circoli clandestini sionisti: tuttavia, il potere resta vigile e reagisce duramente. Nel 1963 viene vietata la preparazione della matzà di Pesach nei forni della Sinagoga di Mosca. Ma il sentimento nazionale e la voglia di raggiungere Israele cresce esponenzialmente tra gli ebrei sovietici, specie  prima nella Crisi di Suez del 1956-57 e poi dopo la Guerra dei Sei giorni del 1967. È un boom di richieste di visti per l’espatrio dall’Unione Sovietica. Ma la maggior parte viene respinta. È qui e ora che nasce e si costruisce quella che diventerà l’anima del movimento ebraico sovietico, quella dei refusnik (otkaznik, in russo), ossia coloro ai quali è stato negato il visto per poter emigrare in Israele.
Tutti costoro pagarono un prezzo, soffrendo da subito una forte emarginazione sociale, perdendo il lavoro e rischiando di essere arrestate in ogni momento.

L’avventura dei refusniks



L'esodo dei Refuseniks

Nel 1970 ad attirare l’attenzione di tutto il mondo verso la situazione deirefusnik è stato il tentativo di un gruppo di ebrei di dirottare un aereo per emigrare dall’Urss. Gli ideatori, il pilota Mark Dymshits e l’attivista Eduard Kuznetsov, furono arrestati insieme ad altri e condannati a morte. La pena capitale è stata poi sostituita con 15 anni di gulag grazie all’attenzione mediatica che il caso aveva suscitato.
Nonostante le repressioni, a Mosca negli anni 1969-70 si organizzavano i primi ulpan clandestini, i corsi di ebraico in vista dell’aliyà. «In pochi però conoscevano i testi religiosi ebraici», racconta la giornalista Yevgenia Albats, che nel 1972, quando aveva 14 anni, ha iniziato a frequentare una yeshivah clandestina. L’auto-coscienza dell’ebreo sovietico si formava così intorno al concetto di nazionalità e non con un ritorno alla religione. Anche perché una voce esplicita del passaporto sovietico doveva indicare obbligatoriamente lanazionalità del titolare (laddove per nazionalità si intende religione), e per gli ebrei questo avrebbe pregiudicato l’apertura di molte porte. La stessa Yevgenia Albats si ricorda di essere stata aggredita da piccola, insieme alla sorella, proprio dalle ragazzine con cui giocava: gli avevano strappato le cravatte dei pionieri, urlando loro che avevano “delle facce da zjhid” e che quindi non erano degne di portarle.
La parola zjhid è tuttora considerata un insulto, e nella lingua russa la si usa per gli ebrei, in senso dispregiativo. Ma le ingiurie non erano il peggio: agli ebrei era precluso anche l’accesso all’Università, tranne che per una piccola quota del 3 per cento. «A Mosca, c’erano degli insegnanti che preparavano gli alunni delle famiglie ebraiche agli esami di ammissione senza chiedere neanche un soldo. Gli ebrei dovevano essere molto più preparati rispetto agli altri, se volevano passare», racconta Albats che nel 1975 è riuscita ad entrare alla facoltà di Giornalismo dell’Università Statale di Mosca grazie a questo tipo di preparazione.
Il movimento ebraico però continuava a rafforzarsi e a coinvolgere giovani attivisti. Grande successo ha avuto il Festival della Canzone Ebraica che si organizzava per qualche anno in mezzo al bosco, vicino al paesino Ovrazhki, nei dintorni di Mosca. Quella del 1980 fu l’ultima edizione del Festival, prima dello sgombero definitivo da parte di polizia e autorità: alla Woodstock ebraico-sovietica parteciparono più di 1200 persone.

Perestrojka: si cambia!
La svolta tuttavia avvenne nel 1986-87, con la Perestrojka. In quel periodo vengono scarcerati i cosiddetti prigionieri di Sion, gli attivisti rinchiusi nei gulag, mentre nel 1988 partono per Israele gli ultimi refusnik: sono in 19.251.
A fare da ponte tra gli ambienti dei refusnik e le nuove realtà ebraiche che stanno nascendo a Mosca e altrove, parallelamente alla trasformazione della Russia, c’è Mikhail Chlenov. Etnografo, poliglotta, insegnante clandestino di ebraico, Chlenov ha teorizzato il concetto della Comunità da costruire all’interno della diaspora russa. Pur sostenendo le idee sioniste, era convinto che la vita ebraica nell’Urss non dovesse finire con l’aliyà. Così, mentre continuava l’esodo di massa degli ebrei sovietici in Israele, a dicembre del 1989, Chlenov organizza e convoca, a Mosca, il Vaad dell’Urss, di fatto la prima Convention dei rappresentanti delle organizzazioni ebraiche sul territorio sovietico.

La palla agli oligarchi
Negli anni Novanta la palla è passata agli oligarchi che si sono impegnati nella ricostruzione della vita ebraica a Mosca. Il magnate mediatico Vasilij Gusinskij, in fuga all’estero dal 2000, ha fondato nel 1996 il Congresso ebraico russo (Rek). Nella presidenza del Rek sono entrati sia Mikhail Chlenov, sia Yevgenia Albast, l’unica donna. «Il Rek ha affrancato gli ebrei russi da quell’inferiorità interiorizzata che si era calcificata nei decenni dentro la loro anima; e ha permesso loro di smettere di guardare i propri compatrioti tenendo gli occhi bassi», racconta Albats che seguiva, per il Congresso, la Commissione che lavorava alla traduzione dei testi religiosi e alla ricerca dei vecchi Sefarim spariti dalle sinagoghe dopo la Rivoluzione bolscevica. Il Rek ha anche fatto costruire la Sinagoga a Poklonnaja Gora (una collina a Mosca), dedicata alla memoria della Shoah e ora gestita da una comunità riformata. Sul piano religioso, il Rek è vicino al Congresso delle organizzazioni e delle comunità ebraiche della Russia (Keroor), che nel 1993 ha eletto come Rabbino Capo della Russia Adolf Shaevich, sostenitore della tradizione lituana del giudaismo ortodosso. Alla stessa corrente appartiene anche l’attuale rabbino capo di Mosca, Pinchas Goldschmidt, proveniente dalla Svizzera.

Ci sono anche i sefarditi
Parallelamente a questo polo, se n’è creato un altro con la fondazione della Federazione delle Comunità ebraiche della Russia (Feor), nel 1999 ad opera dei Chabad-Lubavich. Nel 2000, la Feor ha eletto, come Rabbino capo, Rav Berel Lazar originario di Milano, e figlio del nostro Rav Moshe Lazar. La Feor gode del sostegno dell’amministrazione del presidente russo Vladimir Putin ed è sponsorizzato dagli oligarchi vicini al Cremlino, come Roman Abramovich e Levi Levaev, ebreo di Bukhara, una comunità dell’Asia Centrale. Quest’ultima, insieme a quella degli ebrei georgiani e a quelli della montagna, sono le uniche tre comunità presenti a Mosca che non si considerano ashkenazite. Gli ebrei della montagna (Gorskije Yevrei , in russo), sono originari dell’Azerbaidjan, del Daghestan e delle altre regioni del Caucaso del Nord, e nella capitale russa si dedicano principalmente al settore immobiliare investendo in grandi centri commerciali. Uno dei più grandi Shopping-mall di Mosca, Evropejskij, è di proprietà di due ebrei della montagna, Zarakh Iliev e God Nisanov.
«Le grandi strutture influiscono sempre meno sulla vita della Comunità ebraica di Mosca», afferma convinto Motya Chlenov del Rek, che vede il futuro ebraico in quei progetti autonomi capaci di proporre soluzioni interessanti alle nuove generazioni. Per esempio il Limmud, iniziativa di studio della cultura ebraica nata in Gran Bretagna e che a Mosca raccoglie ogni anno mille persone. Alla fine, hanno avuto torto coloro che durante la Grande Aliyà degli anni Novanta, quella post-Perestrojka, propugnavano la scomparsa della Comunità ebraica russa e moscovita. Vitale, composita, ricca, attraversata da molte anime diverse, la Comunità esiste eccome ed è in continua evoluzione.

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10 marzo 2014

Muarizio Molinari ( la Stampa 6 marzo 2014) intervista il Custode di Terra Santa



Pochi metri dopo la Porta Nuova della Città Vecchia, sulla sinistra c’è l’entrata alla Custodia di Terra Santa ovvero la sede dei francescani guidata da Pierbattista Pizzaballa, con alle spalle 25 anni di esperienza in MedioOriente. «I cristiani in questa regione oggi hanno due scelte, possono andar via o restare - esordisce - e per chi resta la speranza può venire da quanto sta maturando in Egitto».
  Cosa sta avvenendo in Egitto che tocca ogni arabo cristiano?
«Ci troviamo davanti ad cambiamento importante nell’atteggiamento dei cristiani. Mentre prima prevaleva la richiesta di protezione da parte delle autorità ora si afferma la necessità di una piena cittadinanza. Poiché in Medio Oriente non si può parlare di laicità, è la piena cittadina la rivendicazione più avanzata in merito alla parità dei diritti. In passato da parte della comunità cristiana c’era timidezza ma ora non è più così».
 Cosa ha portato a questa svolta in Egitto?
«E’ stato decisivo il dibattito pubblico che ha coinvolto la società, e non più solo l’élite, nella discussione sulla nuova Costituzione. E’ stato un dibattito interessante che ha coinvolto i cristiani e l’Università di Al-Azhar, importante simbolo sunnita che svolge un ruolo di moderazione. Certo, si tratta di contenuti non definitivi, ma ciò che conta è il dialogo aperto sui diritti delle minoranze. Si discute per la prima volta sull’identità dello Stato. L’Egitto può essere un modello sia per storia, economia e popolazione, per l’intero mondo arabo anche se è chiaro che la situazione cambia da Paese a Paese. Basti pensare alla Siria dove la piega degli eventi è completamente opposta, drammatica». 
 Come giudica l’evoluzione del ruolo dei cristiani nella vita pubblica in Libano?
«In Libano una volta i cristiani erano un partito mentre ora sono presenti in più partiti dunque mantengono l’appartenenza religiosa ma sul fronte politico l’impegno è più vasto. Di conseguenza è cambiato completamente il rapporto con la comunità musulmana ».
  Quanto pesa la minaccia dei gruppi jihadisti? «In Medio Oriente non è in atto una lotta fra Cristianesimo e Islam ma un conflitto dentro l’Islam che coinvolge anche i cristiani. Vengono distrutte anche moschee, non solo chiese. Al Qaeda, i salafiti e l’Isis in Siria sono un problema molto grande, da denunciare con chiarezza, ma bisogna andare oltre e cercare il dialogo con quelle realtà sunnite, come Al-Azhar in Egitto, che si stanno aprendo ad un confronto sul tema della cittadinanza».
  Perché un numero di cristiani sempre più alto abbandona i Territori palestinesi?
«Nei Territori palestinesi la realtà ha a che fare con Israele, c’è grande stanchezza nel negoziato, si assiste all’ascesa movimenti islamici perché i moderati non hanno ottenuto molto dal negoziato con Israele. In molti vanno via, musulmani e cristiani.Ma i musulmani hanno più figli. Ciò che colpisce è che ad andare via è la classe media. E’ certo vero che come dice il Vangelo i poveri sono la nostra ricchezza ma l’emigrazione del ceto medio indebolisce di molto la comunità cristiana. Alla base di questo fenomeno c’è il perdurante conflitto che non consente prospettive economiche normali. Inoltre i piccoli imprenditori cristiani sono stati travolti dalla globalizzazione, non si sono aggiornati in tempo. Senza contare che i cristiani hanno perso il ruolo avuto fino a 20-30 anni fa nel nazionalismo palestinese, oggi non c’è più nulla di tutto questo, si tratta di un cambiamento generazionale che si somma all’affermazione degli islamici».Da qui la scelta se andare o restare... «Mettendosi nei panni di chi non ha lavoro né prospettive economiche, andarsene è una scelta che capisco anche se non condivido, restare significa invece non limitarsi alla denuncia degli islamici come Al- Qaeda e Isis ma impegnarsi a dialogare con gli altri, come il modello egiziano dimostra».
 Perché fra i cristiani in Israele è in corso un dibattito intenso sull’arruolamento nelle forze armate? 
«I cristiani in Israele sono al tempo stesso cittadini israeliani, palestinesi ed hanno la fede cristiana.Sfido chiunque a trovare una soluzione. Sono una comunità in cerca di soluzioni dinamiche. Ci chiedono identità. Il dibattito sull’esercito è profondo perché fare il servizio militare qui è una scelta diversa dall’Italia, anche se si tratta di servizio civile perché si finisce per andare nei Territori».

      Maurizio Molinari


Mons. Pizzaballa: quando le domande sono pertinenti, difficile nascondere la verità

da Informazione Corretta
Quando le domande sono pertinenti, difficile evitarle. Si può sempre fare melina, parlare d'altro, ma il lettore avveduto non potrà fare a meno di accorgersene. E' quanto avviene con l'intervista di Maurizio Molinari a Mons. Pizzabala sulla STAMPA di oggi, 06/03/2014, a pag.29, con il titolo "Il nuovo dialogo in Egitto è un modello per i cristiani". Le risposte di Pizzaballa sono la conferma dell'ipocrisia della politica Vaticana in Medio Oriente. Mai affrontare il problema vero della persecuzione dei cristiani, il vero motivo del loro esodo, ma sottovalutare la responsabilità dei regimi islamici, abbarbicarsi disperatamente al cambio di regime in Egitto, come se questo fosse sufficiente per cambiare la situazione.  Il giudizio su Israele è la ripetizione di una menzogna che dura da sempre.  Molinari gli chiede perchè i cristiani fuggono dai Territori palestinesi, ma Pizzaballa si guarda bene dal rispondere, fa ricadere invece la responsabilità su Israele.

Invitiamo i nostri lettori ad esprimere la loro opinione non solo alla STAMPA, ma anche ai due quotidiani reponsabili dell'informazione ufficiale della Chiesa cattolica, OSSERVATORE ROMANO e AVVENIRE.