Si chiamano lavoratori precari, e va detto li hanno chiamati in molti modi, secondo i tipi di contratto: atipici, flessibili, co. co. pro., a tempo determinato, tirocinanti, pure partite Iva (l’illusione di essere liberi professionisti ) e sono dappertutto in Italia: nella scuola, nell’Università, nella Giustizia e anche nel settore privato ( li chiamano stagisti o CTD nella migliore delle ipotesi) e di loro, ne hanno abbondato/abusato ad uso e consumo con la buona o la cattiva economia.
Tante definizioni diverse, come nei paesi civili del Nord Europa (tipo la Danimarca dove la flessibilità è sicurezza), che però in Italia sono riconducibili al divide et impera – se siete diversi non vi mettete insieme e vi si controlla meglio –nell’ottica sindacale e al precarius – dal latino “ottenuto con preghiere, concesso per grazia”- il lavoro.
Perché sempre e solo di lavoro si tratta-merce rara in questo paese- ma anche e soprattutto, di vite e di persone non solo giovani ma anche di quarantenni e cinquantenni fuoriusciti con gli ammortizzatori sociali da aziende in crisi.
Licenziati che non arrivano alla pensione, insomma, altra categoria diversa dagli esodati che con un “aiutino” in più dal governo –come è successo- sono passati in carico all’INPS come pensionati. Per i precari, senza tutela, è precario il lavoro, il “contratto di lavoro” che non hanno, ma soprattutto lo stile di vita: far quadrare il bilancio familiare, metter su famiglia o sorreggerla, con gli affitti, le bollette, le spese dei figli, se ci sono.
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(C0NTINUA A LEGGERE)
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