Le donne cambiano la Storia, cambiamo i libri di Storia.

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LE DONNE CAMBIANO LA STORIA, CAMBIAMO I LIBRI DI STORIA

29 luglio 2017

NPSG Newsletter luglio 2017

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luglio 2017
Direttore resp.: Nicola Giovannini
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 Notizie
Giornata della Giustizia Penale Internazionale: NPSG chiede un maggiore impegno nella lotta contro l’impunità
 
Bruxelles - Roma, 17 luglio 2017
Lo scorso anno è stato particolarmente arduo sia per la giustizia internazionale che per la Corte Penale Internazionale essendo stato teatro di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidi, iniziati e continuati ad essere perpetrati in numerosi paesi e colpendo le popolazioni più vulnerabili del mondo. In particolare, durante la seconda meta del 2016, tre stati membri dello Statuto di Roma hanno formalmente dichiarato la loro intenzione di recedere dallo Statuto della Corte e, contemporaneamente, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha continuato a rimanere arenato nello sviluppo di una concreta contro misura ai crimini commessi in Siria, nonostante i tremendi eventi che stavano accadendo ad Aleppo.
 
Queste due situazioni sono anche diventate occasioni che hanno portato la comunità internazionale a mobilitarsi per chiedere giustizia e schierarsi dalla parte delle vittime. Durante l’annuale Assemblea  degli Stati membri della Corte Penale Internazionale, nel Novembre del 2016, gli Stati membri hanno colto l’occasione per ribadire il loro forte supporto per la CPI e, in generale, per la giustizia internazionale, dichiarando che non permetterebbero che i principi sui cui lo Statuto di Roma si fonda siano sacrificati a causa dell’ostruzionismo politico. 
 
Il mese successivo ha visto l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, guidata dal Liechtenstein, iniziare ad agire in Siria laddove il Consiglio di Sicurezza ONU era stato incapace di farlo e creando il cosiddetto Meccanismo Internazionale, Imparziale e Indipendente (IIIM o Meccanismo) per supportare le investigazioni e la prosecuzione dei crimini commessi in Siria. Nonostante sia un piccolo passo, questa è stata la prima azione concreta presa dall’intera comunità internazionale per iniziare il percorso verso l’identificazione dei crimini commessi in Siria e le relative riparazioni per le vittime.
 
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Bahrein: NPWJ condanna con forza il processo farsa e la pena detentiva contro Nabeel Rajab
 
Bruxelles – Roma, 11 luglio 2017
Non c’è Pace Senza Giustizia (NPSG) condanna con forza la decisione della Sezione Penale del  Tribunale di primo grado del Bahrein per aver condannato Nabeel Rajab, in contumacia, a due anni di reclusione per le interviste che ha condotto tra il 2015 e 2016. Esprimiamo la nostra immutata solidarietà e supporto per Rajab, che ha ininterrottamente portato avanti proteste pacifiche e combattuto per un sistema politico in Bahrain che sia giusto e democratico.
 
La scioccante decisione di ieri non è altro che un altro esempio dell’implacabile determinazione delle autorità del Bahrain a criminalizzare la libertà di parola e silenzio e a soffocare ogni pacifico dissenso attraverso un abuso di processi e, infine, usando impropriamente il potere giudiziale e dei poteri della polizia. Gli atti allegati alle accuse contro Rajab non solo non sono riconducibili a alcun illecito penale secondo il diritto internazionale dei diritti umani, ma sono anche una minaccia al pacifico godimento della libertà di espressione, diritto protetto a livello internazionale, e, più in generale, alla promozione e la protezione dei diritti umani.
 
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CPI / Sudafrica: la Corte conferma l’inadempimento dell'obbligo di arrestare il presidente Al Bashir
 
Bruxelles - Roma, 6 luglio 2017
« Siamo lieti che con la decisione presa oggi, la CPI abbia risolto la faccenda » ha dichiarato Alison SmithDirettrice del Programma sulla Giustizia Penale Internazionale di Non c’è Pace Senza Giustizia. « Per noi, è sempre stato ovvio che il Sud Africa stesse violando l’ obbligo di arrestare il Presidente al-Bashir e di consegnarlo alla CPI affinchè fosse processato. Non c’è mai stato un conflitto di leggi: lo Statuto di Roma, il diritto internazionale consuetudinario ed anche il diritto nazionale del Sud Africa sono chiari sul fatto chel’immunità dei Capi di Statonon si applica ai crimini  di diritto internazionale, specialmente quando i mandati di arresto sono rilasciati dalla Corte dell’Aia. »
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 Eventi
Conferenza “Tortura: mettere a tacere gli attivisti anti-schiavitù di IRA Mauritania”
 
Centro ROSOCHA, Bruxelles, 29 Giugno 2017
Il 29 giugno 2017, IRA Mauritania ha organizzato un dibattito al centro Rosocha a Bruxelles dal titolo “Tortura: mettere a tacere gli attivisiti anti-schiavitù di IRA Mauritania”.  All’evento, hanno partecipato diversi rappresentanti di IRA Mauritania, tra cui Biram Dah Abeid, Presidente di IRA-Mauritania, nonchè Niccolò Figà-Talamanca, Segretario Generale di Non c’è Pace senza Giustizia.
 
L’evento si è tenuto con lo scopo di accrescere la consapevolezza sul tema della schiavitù e discutere dell’arresto di 13 membri di IRA Mauritania in occasione di una protesta organizzata il 29 giugno 2016 contro l’espropriazione forzata di alcune famiglie da una baraccopoli nel quartiere di Ksarn a Nouakchoutt, capitale della Mauritana.
 
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Conferenza “Ninive dopo l'ISIS: la risposta europea”
 
Parlamento europeo, Bruxelles, 6 giugno 2017
La conferenza “Ninive dopo l'ISIS: la risposta europea”, organizata il 6 giugno al Parlamento europeo per discutere la situazione post-ISIS in Iraq è terminata con un generale consenso su un ampio apparato di misure e azioni per far tornare gli sfollati nelle loro case e iniziare la ricostruzione. Tenendo presente che l’imminente caduta di Mosul non significa “Game Over” per le Istituzioni Europee e gli stati membri, la conferenza ha sviluppato sette priorità principali per l’Europa e le autorità irachene per la fase “post-ISIS” del conflitto in Iraq. 
 
La conferenza è stata ospitata dai Membri del Parlamento Europeo Ana Gomes e Elmar Brok e organizzata in collaborazione con Non c'è Pace Senza Giustizia (NPSG), l’Institute for International Law and Human Rights (ILHIR), la Konrad-Adenauer-Stiftung, l’Organizzazione dei Popoli e delle Nazioni non Rappresentati (UNPO) e Minority Rights Group International (MRG). L'evento ha riunito alti rappresentanti del Governo Iracheno, della regione autonoma del Kurdistan iracheno, delle Nazioni Unite, delle Istituzioni Europee, parlamentari europei e iracheni, e rappresentanti della società civile irachena.
 
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 NPSG su radio Radicale
Rubrica di Non c'è Pace Senza Giustizia
 
Ogni mercoledi alle 23h30
Non c’è Pace Senza Giustizia e Radio Radicale, la principale emittente radiofonica nazionale che si occupa di temi di attualità politica, sono impegnati da tempo in una stretta collaborazione al fine di diffondere notizie ed informazioni sulle nostre campagne ad un ampio pubblico italiano. Tale collaborazione ha in particolare dato vita ad una rubrica settimanale di approfondimento sulle campagne ed attività in corso di NPSG. Il programma va in onda ogni mercoledi sera alle 23.30.

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 Comunicati Stampa di Non c'è Pace Senza Giustizia
 Dicono di Noi

 
Will Christians return to Mosul post-Islamic State?
by Diana Chandler, Baptist Press, 19 July 2017
Civilian Casualties Mount in Battle to Re-take Mosul
Mark Lattimer, The Wire, 8 June 2017
Se in Siria non si persegue la via della giustizia non ci sarà più pace né ricostruzione
Marco Perduca e Gianluca Eramo, Huffington Post, 6 April 2017
Armi chimiche, stragi di Idlib, Siria
Radio Radicale, 5 April 2017
Siria. Le voci della società civile
Spazio Transnazionale, Radio Radicale, 4 April 2017
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6 luglio 2017

CIA, BILDERBERG, BR, BRITANNIA: ECCO A VOI LA VERA STORIA ITALIANA


di Nino Galloni

Il primo colpo storico contro l’Italia lo mette a segno Carlo Azeglio Ciampi, futuro presidente della Repubblica, incalzato dall’allora ministro Beniamino Andreatta, maestro di Enrico Letta e “nonno” della Grande Privatizzazione che ha smantellato l’industria statale italiana, temutissima da Germania e Francia. E’ il 1981: Andreatta propone di sganciare la Banca d’Italia dal Tesoro, e Ciampi esegue. Obiettivo: impedire alla banca centrale di continuare a finanziare lo Stato, come fanno le altre banche centrali sovrane del mondo, a cominciare da quella inglese. Il secondo colpo, quello del ko, arriva otto anno dopo, quando crolla il Muro di Berlino. La Germania si gioca la riunificazione, a spese della sopravvivenza dell’Italia come potenza industriale: ricattati dai francesi, per riconquistare l’Est i tedeschi accettano di rinunciare al marco e aderire all’euro, a patto che il nuovo assetto europeo elimini dalla scena il loro concorrente più pericoloso: noi, l’Italia.

A Roma non mancano complici: pur di togliere il potere sovrano dalle mani della “casta” corrotta della Prima Repubblica, c’è chi è pronto a sacrificare l’Italia all’Europa “tedesca”, naturalmente all’insaputa degli italiani.

È la drammatica ricostruzione di Nino Galloni, già docente universitario, manager pubblico e alto dirigente di Stato.

All’epoca, nel fatidico 1989, Galloni era consulente del governo su invito dell’eterno Giulio Andreotti, il primo statista europeo che ebbe la prontezza di affermare di temere la riunificazione tedesca. Non era “provincialismo storico”: Andreotti era al corrente del piano contro l’Italia e tentò di opporvisi, finche potè. Poi a Roma arrivò una telefonata del cancelliere Helmut Kohl, che si lamentò col ministro Guido Carli: qualcuno “remava contro” il piano franco-tedesco.

Galloni si era appena scontrato con Mario Monti alla Bocconi e il suo gruppo aveva ricevuto pressioni da Bankitalia, dalla Fondazione Agnelli (facenti anche loro parte del gruppo Bilderberg) e da Confindustria. La telefonata di Kohl fu decisiva per indurre il governo a metterlo fuori gioco. «Ottenni dal ministro la verità», racconta l’ex super-consulente, ridottosi a comunicare con l’aiuto di pezzi di carta perché il ministro «temeva ci fossero dei microfoni». Sul “pizzino”, scrisse la domanda decisiva: “Ci sono state pressioni anche dalla Germania sul ministro Carli perché io smetta di fare quello che stiamo facendo?”. Eccome: «Lui mi fece di sì con la testa».



Questa, riassume Galloni, è l’origine della “inspiegabile” tragedia nazionale nella quale stiamo sprofondando. I super-poteri egemonici, prima atlantici e poi europei, hanno sempre temuto l’Italia. Lo dimostrano due episodi chiave. Il primo è l’omicidio di Enrico Mattei, stratega del boom industriale italiano grazie alla leva energetica propiziata dalla sua politica filo-araba, in competizione con le “Sette Sorelle”.

E il secondo è l’eliminazione di Aldo Moro, l’uomo del compromesso storico col Pci di Berlinguer assassinato dalle “seconde Br”: non più l’organizzazione eversiva fondata da Renato Curcio ma le Br di Mario Moretti, «fortemente collegate con i servizi, con deviazioni dei servizi, con i servizi americani e israeliani». Il leader della Dc era nel mirino di killer molto più potenti dei neo-brigatisti: «Kissinger gliel’aveva giurata, aveva minacciato Moro di morte poco tempo prima» (Kissinger è anche l’assassino di Salvador Allende).

Tragico preambolo, la strana uccisione di Pier Paolo Pasolini, che nel romanzo “Petrolio” aveva denunciato i mandanti dell’omicidio Mattei, a lungo presentato come incidente aereo. Recenti inchieste collegano alla morte del fondatore dell’Eni quella del giornalista siciliano Mauro De Mauro. Probabilmente, De Mauro aveva scoperto una pista “francese”: agenti dell’ex Oas inquadrati dalla Cia nell’organizzazione terroristica “Stay Behind” (in Italia, “Gladio”) avrebbero sabotato l’aereo di Mattei con l’aiuto di manovalanza mafiosa. Poi, su tutto, a congelare la democrazia italiana avrebbe provvedutola strategia della tensione, quella delle stragi nelle piazze.

Alla fine degli anni ‘80, la vera partita dietro le quinte è la liquidazione definitiva dell’Italia come competitor strategico: Ciampi, Andreatta e De Mita, secondo Galloni, lavorano per cedere la sovranità nazionale pur di sottrarre potere alla classe politica più corrotta d’Europa. Col divorzio tra Bankitalia e Tesoro, per la prima volta il paese è in crisi finanziaria: prima, infatti, era la Banca d’Italia a fare da “prestatrice di ultima istanza” comprando titoli di Stato e, di fatto, emettendo moneta destinata all’investimento pubblico. Chiuso il rubinetto della lira, la situazione precipita: con l’impennarsi degli interessi (da pagare a quel punto ai nuovi “investitori” privati) il debito pubblico esploderà fino a superare il Pil. Non è un “problema”, ma esattamente l’obiettivo voluto: mettere in crisi lo Stato, disabilitando la sua funzione strategica di spesa pubblica a costo zero per i cittadini, a favore dell’industria e dell’occupazione. Degli investimenti pubblici da colpire, «la componente più importante era sicuramente quella riguardante le partecipazioni statali, l’energia e i trasporti, dove l’Italia stava primeggiando a livello mondiale».
Al piano anti-italiano partecipa anche la grande industria privata, a partire dalla Fiat, che di colpo smette di investire nella produzione e preferisce comprare titoli di Stato: da quando la Banca d’Italia non li acquista più, i tassi sono saliti e la finanza pubblica si trasforma in un ghiottissimo business privato. L’industria passa in secondo piano e – da lì in poi – dovrà costare il meno possibile. «In quegli anni la Confindustria era solo presa dall’idea di introdurre forme di flessibilizzazione sempre più forti, che poi avrebbero prodotto la precarizzazione» (il piano lo stà ultimando Renzi con il suo Job Acts). Aumentare i profitti: «Una visione poco profonda di quello che è lo sviluppo industriale».

Risultato: «Perdita di valore delle imprese, perché le imprese acquistano valore se hanno prospettive di profitto». Dati che parlano da soli. E spiegano tutto: «Negli anni ’80 – racconta Galloni – feci una ricerca che dimostrava che i 50 gruppi più importanti pubblici e i 50 gruppi più importanti privati facevano la stessa politica, cioè investivano la metà dei loro profitti non in attività produttive ma nell’acquisto di titoli di Stato, per la semplice ragione che i titoli di Stato italiani rendevano tantissimo e quindi si guadagnava di più facendo investimenti finanziari invece che facendo investimenti produttivi. Questo è stato l’inizio della nostra deindustrializzazione».

Alla caduta del Muro, il potenziale italiano è già duramente compromesso dal sabotaggio della finanza pubblica, ma non tutto è perduto: il nostro paese – “promosso” nel club del G7 – era ancora in una posizione di dominio nel panorama manifatturiero internazionale. Eravamo ancora «qualcosa di grosso dal punto di vista industriale e manifatturiero», ricorda Galloni: «Bastavano alcuni interventi, bisognava riprendere degli investimenti pubblici».

E invece, si corre nella direzione opposta: con le grandi privatizzazioni strategiche, negli anni ’90 «quasi scompare la nostra industria a partecipazione statale», il “motore” di sviluppo tanto temuto da tedeschi e francesi. Deindustrializzazione: «Significa che non si fanno più politiche industriali». Galloni cita Pierluigi Bersani: quando era ministro dell’industria «teorizzò che le strategie industriali non servivano». Si avvicinava la fine dell’Iri, gestita da Prodi in collaborazione col solito Andreatta e Giuliano Amato. Lo smembramento di un colosso mondiale: Finsider-Ilva, Finmeccanica, Fincantieri, Italstat, Stet e Telecom, Alfa Romeo, Alitalia, Sme (alimentare), nonché la BancaCommerciale Italiana, il Banco di Roma, il Credito Italiano.

Le banche, altro passaggio decisivo: con la fine del “Glass-Steagall Act” nasce la “banca universale”, cioè si consente alle banche di occuparsi di meno del credito all’economia reale, e le si autorizza a concentrarsi sulle attività finanziarie peculative. Denaro ricavato da denaro, con scommesse a rischio sulla perdita. E’ il preludio al disastro planetario di oggi. In confronto, dice Galloni, i debiti pubblici sono bruscolini: nel caso delle perdite delle banche stiamo parlando di tre-quattromila trilioni.

Un trilione sono mille miliardi: «Grandezze stratosferiche», pari a 6 volte il Pil mondiale. «Sono cose spaventose». La frana è cominciata nel 2001, con il crollo della new-economy digitale e la fuga della finanza che l’aveva sostenuta, puntando sul boom dell’e-commerce. Per sostenere gli investitori, le banche allora si tuffano nel mercato-truffa dei derivati: raccolgono denaro per garantire i rendimenti, ma senza copertura per gli ultimi sottoscrittori della “catena di Sant’Antonio”, tenuti buoni con la storiella della “fiducia” nell’imminente “ripresa”, sempre data per certa, ogni tre mesi, da «centri studi, economisti, osservatori, studiosi e ricercatori, tutti sui loro libri paga».

Quindi, aggiunge Galloni, siamo andati avanti per anni con queste operazioni di derivazione e con l’emissione di altri titoli tossici. Finché nel 2007 si è scoperto che il sistema bancario era saltato: nessuna banca prestava liquidità all’altra, sapendo che l’altra faceva le stesse cose, cioè speculazioni in perdita. Per la prima volta, spiega Galloni, la massa dei valori persi dalle banche sui mercati finanziari superava la somma che l’economia reale – famiglie e imprese, più la stessa mafia – riusciva ad immettere nel sistema bancario. «Di qui la crisi di liquidità, che deriva da questo: le perdite superavano i depositi e i conti correnti». Come sappiamo, la falla è stata provvisoriamente tamponata dalla Fed, che dal 2008 al 2011 ha trasferito nelle banche – americane ed europee – qualcosa come 17.000 miliardi di dollari, cioè «più del Pil americano e più di tutto il debito pubblico americano».

Va nella stessa direzione – liquidità per le sole banche, non per gli Stati – il “quantitative easing” della Bce di Draghi, che ovviamente non risolve la crisi economica perché «chi è ai vertici delle banche, e lo abbiamo visto anche al Monte dei Paschi, guadagna sulle perdite». Il profitto non deriva dalle performance economiche, come sarebbe logico, ma dal numero delle operazioni finanziarie speculative: «Questa gente si porta a casa i 50, i 60 milioni di dollari e di euro, scompare nei paradisi fiscali e poi le banche possono andare a ramengo». Non falliscono solo perché poi le banche centrali, controllate dalle stesse banche-canaglia, le riforniscono di nuova liquidità. A monte: a soffrire è l’intero sistema-Italia, da quando – nel lontano 1981 – la finanzia pubblica è stata “disabilitata” col divorzio tra Tesoro e Bankitalia. Un percorso suicida, completato in modo disastroso dalla tragedia finale dell’ingresso nell’Eurozona, che toglie allo Stato la moneta ma anche il potere sovrano della spesa pubblica, attraverso dispositivi come il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio.

Per l’Europa “lacrime e sangue”, il risanamento dei conti pubblici viene prima dello sviluppo. «Questa strada si sa che è impossibile, perché tu non puoi fare il pareggio di bilancio o perseguire obiettivi ancora più ambiziosi se non c’è la ripresa». E in piena recessione, ridurre la spesa pubblica significa solo arrivare alla depressione irreversibile. Vie d’uscita? Archiviare subito gli specialisti del disastro – da Angela Merkel a Mario Monti – ribaltando la politica europea: bisogna tornare alla sovranità monetaria, dice Galloni, e cancellare il debito pubblico come problema. Basta puntare sulla ricchezza nazionale, che vale 10 volte il Pil. Non è vero che non riusciremmo a ripagarlo, il debito. Il problema è che il debito, semplicemente, non va ripagato: «L’importante è ridurre i tassi di interesse», che devono essere «più bassi dei tassi di crescita». A quel punto, il debito non è più un problema: «Questo è il modo sano di affrontare il tema del debito pubblico». A meno che, ovviamente, non si proceda come in Grecia, dove «per 300 miseri miliardi di euro» se ne sono persi 3.000 nelle Borse europee, gettando sul lastrico il popolo greco.

Domanda: «Questa gente si rende conto che agisce non solo contro la Grecia ma anche contro gli altri popoli e paesi europei? Chi comanda effettivamente in questa Europa se ne rende conto?». Oppure, conclude Galloni, vogliono davvero «raggiungere una sorta di asservimento dei popoli, di perdita ulteriore di sovranità degli Stati» per obiettivi inconfessabili, come avvenuto in Italia: privatizzazioni a prezzi stracciati, depredazione del patrimonio nazionale, conquista di guadagni senza lavoro. Un piano criminale: il grande complotto dell’élite mondiale. «Bilderberg, Britannia, il Gruppo dei 30, dei 10, gli “Illuminati di Baviera”: sono tutte cose vere», ammette l’ex consulente di Andreotti.

«Gente che si riunisce, come certi club massonici, e decide delle cose». Ma il problema vero è che «non trovano resistenza da parte degli Stati». L’obiettivo è sempre lo stesso: «Togliere di mezzo gli Stati nazionali allo scopo di poter aumentare il potere di tutto ciò che è sovranazionale, multinazionale e internazionale». Gli Stati sono stati indeboliti e poi addirittura infiltrati, con la penetrazione nei governi da parte dei super-lobbysti, dal Bilderberg agli “Illuminati”. «Negli Usa c’era la “Confraternita dei Teschi”, di cui facevano parte i Bush, padre e figlio, che sono diventati presidenti degli Stati Uniti: è chiaro che, dopo, questa gente risponde a questi gruppi che li hanno agevolati nella loro ascesa».

Non abbiamo amici. L’America avrebbe inutilmente cercato nell’Italia una sponda forte dopo la caduta del Muro, prima di dare via libera (con Clinton) allo strapotere di Wall Street. Dall’omicidio di Kennedy, secondo Galloni, gli Usa «sono sempre più risultati preda dei britannici», che hanno interesse «ad aumentare i conflitti, il disordine», mentre la componente “ambientalista”, più vicina alla Corona, punta «a una riduzione drastica della popolazione del pianeta» e quindi ostacola lo sviluppo, di cui l’Italia è stata una straordinaria protagonista.

L’odiata Germania? Non diventerà mai leader, aggiunge Galloni, se non accetterà di importare più di quanto esporta. Unico futuro possibile: la Cina, ora che Pechino ha ribaltato il suo orizzonte, preferendo il mercato interno a quello dell’export. L’Italia potrebbe cedere ai cinesi interi settori della propria manifattura, puntando ad affermare il made in Italy d’eccellenza in quel mercato, 60 volte più grande. Armi strategiche potenziali: il settore della green economy e quello della trasformazione dei rifiuti, grazie a brevetti di peso mondiale come quelli detenuti da Ansaldo e Italgas.

Prima, però, bisogna mandare a casa i sicari dell’Italia – da Monti alla Merkel – e rivoluzionare l’Europa, tornando alla necessaria sovranità monetaria. Senza dimenticare che le controriforme suicide di stampo neoliberista che hanno azzoppato il paese sono state subite in silenzio anche dalle organizzazioni sindacali. Meno moneta circolante e salari più bassi per contenere l’inflazione? Falso: gli Usa hanno appena creato trilioni di dollari dal nulla, senza generare spinte inflattive. Eppure, anche i sindacati sono stati attratti «in un’area di consenso per quelle riforme sbagliate che si sono fatte a partire dal 1981». Passo fondamentale, da attuare subito: una riforma della finanza, pubblica e privata, che torni a sostenere l’economia.

Stop al dominio antidemocratico di Bruxelles, funzionale solo alle multinazionali globalizzate. Attenzione: la scelta della Cina di puntare sul mercato interno può essere l’inizio della fine della globalizzazione, che è «il sistema che premia il produttore peggiore, quello che paga di meno il lavoro, quello che fa lavorare i bambini, quello che non rispetta l’ambiente né la salute». E naturalmente, prima di tutto serve il ritorno in campo, immediato, della vittima numero uno: lo Stato democratico sovrano. Imperativo categorico: sovranità finanziaria per sostenere la spesa pubblica, senza la quale il paese muore. «A me interessa che ci siano spese in disavanzo – insiste Galloni – perché se c’è crisi, se c’è disoccupazione, puntare al pareggio di bilancio è un crimine».


http://www.lastoriavariscritta.it/nino-galloni-vera-storia-ditalia/#sthash.2dchUX1A.UI37yHxM.dpbs

20 giugno 2017

Che fine ha fatto il Dalai Lama?

Grazie Angiolo, la tua chiarezza politica è inarrivabile e concordo con ogni concetto che hai espresso. La giovane generazione radicale purtroppo temo che nella sua totalità non sia proprio stata in grado di comprendere per intero le valenze dell'azione incardinata da Marco negli ultimi 25-30 anni, salvo alcuni, pochi purtroppo. La stessa vicinanza radicale col Dalai Lama è stata troppo spesso considerata in modo un po' folcloristico o puramente religioso. Ti condivido sul mio blog, sperando che aiuti qualcuno non solo a capire ma a mettersi in azione ..

CHE  FINE  HA  FATTO IL  DALAI LAMA?
di Angiolo Bandinelli

Da "L'opinione delle Libertà", 20 giugno 2017

Che fine ha fatto, dove è ora Tenzin Gyatso, il quattordicesimo Dalai Lama, suprema autorità spirituale  del buddismo tibetano e, fino a qualche tempo fa, anche leader politico di quel Paese?  Può essermi sfuggito  ma mi pare  che  l'illustre personaggio abbia smesso di portare la sua figura, la sua preghiera, in giro per il mondo, simbolo vivente e operoso del desiderio e della volontà di sopravvivenza della sua terra, dagli anni '50 occupata dalla Cina e sottoposta a un duro regime tendente a sopprimerne le peculiarità identitarie -  religiose, culturali ed etniche. E' già un dimenticato? Sembra. Anche dai grandi amici radicali? Temo di sì. 
Nel suo lungo, incessante pellegrinare, il Dalai Lama si vide più volte chiudere la porta in faccia, mi pare anche dal Vaticano. La sua presenza dava fastidio, Pechino inviava una nota di protesta al Paese troppo ospitale verso una figura  ritenuta pericolosa per i suoi disegni. Al mite profeta della nonviolenza non restava che piegarsi al diktat, non sempre  sostenuto e difeso da chi avrebbe dovuto. Ma una persona gli fu sempre a fianco, nutrito dei suoi  stessi ideali e progetti, Marco Pannella. Pannella non solo condivideva con lui la metodologia di lotta nonviolenta di origine e ispirazione gandhiana, ma appoggiò  calorosamente la sua decisione, di non rivendicare più,  per il  Tibet, l'indipendenza dalla Cina occupante, ma di chiedere a Pechino di porre in essere una nuova statualità, con una Costituzione inclusiva,  di tipo federale, che consentisse la salvaguardia dei  valori diversi coabitanti sotto le stesse regole civili. Sarebbe stato probabilmente coinvolto in questa prospettiva anche il popolo degli Uiguri, mongoli mussulmani assoggettati da Pechino alla stessa violenza livellatrice: una questione su cui Pannella seppe attirare l'attenzione dell'opinione pubblica mondiale. 
Pannella innalzò a tema universale la proposta del Dalai Lama, e soprattutto le sue motivazioni, che per il leder radicale avevano un valore rivoluzionario. Il Dalai Lama esplicitamente e più volte  affermò che la sua indicazione tendeva ad aprire un orizzonte istituzionale più democratico:  innanzitutto, per gli stessi cinesi. Abbandonato ogni progetto egemonico, Pechino sarebbe divenuto centro aggregatore di diversità e di valori anche "altri", con indubbia crescita di consapevolezza civile.  Pannella fece sua e sviluppò  la prospettiva, che inverava sue lontane intuizioni: il  Dalai Lama diveniva il momento conclusivo di una storia su cui Pannella si era speso intensamente, da quando aveva sposato la causa  dei Montagnards, il complesso polietnico di popoli che vivevano nelle montagne del Vietnam e vennero sistematicamente sottoposti a feroci angherie da parte dei governi vietnamiti. Pannella si batté  anche in sede ONU perché il genocidio venisse fermato, attirandosi le ire di Pechino. Dai Montagnards al Dalai Lama, la difesa delle minoranze diventò uno degli obiettivi di fondo del partito pannelliano. Ma Pannella si spinse anche oltre, prefigurando un mondo nel quale ogni uomo e donna, indipendentemente da religione come da governo, da credenze e valori,  possa godere di diritti analoghi, comuni: secondo il leader radicale, occorrerebbe stabilire una sorta di "Charter"  dei diritti civili e umani a carattere universale, come approfondimento e inveramento del "Charter" dei diritti su cui è fondata l'ONU.
Il progetto è ancora attualissimo, non come sogno utopico ma come urgenza politica dei nostri tempi. Sovranismi e localismi, fondamentalismi e settarismi di ogni genere si oppongono oggi, in ogni parte del globo, al riconoscimento di una universalità dei diritti della persona che invece appare evidente esigenza dinanzi agli incalzanti eventi che stanno attraversando il nostro tempo in forma epocale,  tra sconvolgimenti territoriali e inarrestabili migrazioni.  Purtroppo, la scomparsa di Marco Pannella sembra aver segnato una battuta di arresto nel confronto politico su questi temi. Non c'è più la sua determinazione, la sua intelligenza, a guidarci, i relitti scomposti e dispersi  della galassia radicale, nel loro inseguirsi  e disputare su questo o quel frammento della eredità del grande leader, hanno persino cancellato il nome del Dalai Lama dalle loro agende. Troppo difficile, troppo attuale, troppo impegnativo  Forse sarebbe opportuno rimuovere, dalla sede del PRNTT, la grande foto che ritrae i due leader abbracciati. Però, il PRNTT è ancora tra le ONG riconosciute dall'ONU. E all'ONU il "Global Committee for the Rule of Law", un soggetto della galassia di cui è presidente l'ambasciatore Terzi di S. Agata, sta lavorando su un tema molto pannelliano, il "diritto  umano universale  alla conoscenza". Perché non farlo nel nome e nello spirito del Dalai Lama?