Le donne cambiano la Storia, cambiamo i libri di Storia.

Le donne cambiano la Storia, cambiamo i libri di Storia.
LE DONNE CAMBIANO LA STORIA, CAMBIAMO I LIBRI DI STORIA

6 dicembre 2006

Piergiorgio Welby sta lottando anche per ciascuno di noi

Il diritto di Welby a staccare la spina


Prima di dire di qualcuno che è felice, bisogna aspettarne l´ultimo giorno. Così, più o meno, Ovidio, e tanti sapienti antichi. Premeva loro di avvertire gli umani cui sembrasse arridere la fortuna: non se ne sentissero al sicuro, e gli altri non li invidiassero, fino all´ora della morte, e anzi alle esequie avvenute. Montaigne cita Plutarco. A uno che invidiava il re di Persia, arrivato così giovane su un così gran trono, lo spartano Agesilao rispose: «Già, ma nemmeno Priamo era stato infelice a suo tempo». E che cosa penseremo del contrario? Piergiorgio Welby è dannato alla sua malattia da più di quarant´anni. L´ultima ora, che ha tanto invocato, non gli sarà felice, benchè si sia spinto, poco fa, a immaginarla così: «Morire dev´essere come addormentarsi dopo l´amore, stanchi, tranquilli e con quel senso di stupore che pervade ogni cosa». Non gli sarà felice, non riscatterà i troppi anni, ma che almeno non lo sprofondi nell´offesa e nel dolore supremo. L´ha già percorso a ritroso, il cammino degli umani, come racconta lui: «gattonare, muovere i primi passi, camminare correre…», e invece: «da claudicante a paraplegico, da paraplegico a tetraplegico, fino all´ultimo stadio: respiro con un ventilatore polmonare, mi nutro con un alimento artificiale, parlo con l´ausilio di un computer». Fino ai 60 anni. Non ha resistito abbastanza? Non l´ha protratto abbastanza, il suo dolore, da meritare una mano fraterna? Dimenticate per un momento le parole grosse, che servono a spaventare e affascinare, e a rimuovere la cosa. La cosa è questa: c´è un uomo che ne ha abbastanza. La sua vita, che lui stesso, pienamente lucido, non chiama vita, dura solo grazie a un´efficienza di macchinari che sarebbe ammirevole, a condizione d´esser voluta.

La ragione e la stessa Costituzione gli riconoscono il diritto di rifiutarne la prosecuzione. I congegni che, contro la sua volontà inequivocabilmente espressa, gli prolungano il tormento sono l´esempio nitido di quell´accanimento terapeutico che tutti proclamano di non volere, salvo rifiutarsi di vederlo quando si compie. Le macchine che ora lo torturano a oltranza, Welby avrebbe potuto rifiutarle, come ha fatto il suo predecessore nella carica che sta onorando, Luca Coscioni: dunque quale patto diabolico e irreversibile gli vieterebbe di rinunciare a esse dopo tanta pena? Tante, troppe voci si alzano a intimare o a scongiurare che le macchine non siano spente, che «la spina non sia staccata» - che lui vi resti attaccato, come il prigioniero al filo elettrico nel quale è incappato fuggendo. Ma attenzione: che quei congegni possano essere revocati qualcuno è disposto a riconoscerlo. Altre formule sono pronte per inquadrare quel gesto perfino ovvio: il Consenso informato, il Testamento biologico. Però Welby, esosamente, non si accontenta di chiedere d´esser staccato dal meccanismo che vive per lui e contro di lui - ci provò del resto, si è saputo, con le sue sole, irrisorie forze... Chiede che al suo commiato sia risparmiata l´atrocità di un´agonia strozzata e bestiale, che i suoi sensi siano sedati, come si deve contro la sopraffazione del dolore. Lo chiede con la meticolosità e l´osservanza che si deve alle pratiche d´ufficio: «Il sottoscritto Piergiorgio Welby chiede al Dott (…) il distacco dal ventilatore polmonare sotto sedazione terminale se possibile orale». Ecco, è questa richiesta, la dose minima di umanità, che si infrange contro la voracità della legge, e lo scandalo dell´ipocrisia, anche la più accorata, dunque più difficile da debellare. Ci sono persone che hanno troppa compassione per sè, per la severità inflessibile di cui si sentono investite, per riservarne ancora un po´ al proprio prossimo. L´anestesia che Welby chiede sarebbe omicidio, dicono. Ma che omicidio sarebbe, se il distacco dalle macchine è il suo diritto, e se la conseguenza automatica ne è la morte? Si chiama omicidio una fine meno storta dalla convulsione e dall´asfissia, che si chiamerebbe dunque morte naturale se si compisse lentamente negli spasimi del dolore. L´eutanasia: mai - si proclama. Si è appena imparata quella vecchia nuova parola, per esorcizzarla. Ma si accetti allora di proclamarne il complemento, il contrario auspicato e imposto di prepotenza: non so, la cacotanasia, la morte cattiva e incattivita, ma la cercherete invano nel dizionario dei contrari, perché la cattiveria degli umani non è arrivata a escogitarla. Il nome no, il fatto sì. Eutanasia è il dare la morte a chi la implora - salvo che diventi, tradendosi, l´assassinio del debole o dell´inconsapevole, che non vuole o non può autorizzare a niente, e che è di peso o superfluo al mondo. L´eutanasia è pietosa. Ma non occorre ammetterla: e che il cielo esima dalla prova dei fatti chi la mette al bando per sé e per gli altri. Ma la morte a Welby non sarebbe inflitta dal farmaco che chiede, bensì soltanto dalla rinuncia alla dipendenza artificiale dalle macchine. Dunque, che battaglia stiamo combattendo, se non quella ennesima della clandestinità contro la lealtà?

La lucidità di Welby, che lui sente forse come la peggior condanna, dovrebbe almeno impedire di compiacersi delle accuse di strumentalizzazione ai suoi amici e compagni radicali. È lui che dedica la sua vita e la sua morte a una causa. Mi figuro quanto caro gli sia costato e gli costi - ma si smette presto di figurarsi una simile prova. È un fatto che il suo estremo desiderio personale coincide con la sua convinzione solidale. Welby non chiede a nessun altro di fare come lui. Chiede a tutti che chi lo voglia possa fare come lui. Ho ascoltato parole impensabili. Un parlamentare cristiano, per il quale non avevo che ragioni di simpatia, ha detto: «Lo stesso Welby sa benissimo che le leggi dello Stato italiano non consentono, se non attraverso il suicidio, di decidere personalmente di morire, quindi se lui ritiene di voler dare un taglio alla propria vita può suicidarsi con l´aiuto della moglie». Oltretutto, le leggi dello Stato italiano mandano in galera per molti anni la moglie di Welby che sapesse aiutarlo. Si discute accanitamente (ci sono accanimenti retorici assurdi quasi quanto le terapie) di questioni proprietarie. La vita non ci appartiene, eccetera. Dunque io non sarei padrone del mio corpo? Certo che lo sono. Però anche in questa ovvietà - senza chiamare in causa le definizioni giuridiche - entrano un paio di complicazioni. La prima è la separazione fra il soggetto e il complemento, che la sintassi verbale consente ma la realtà no. Chi sono «io» fuori dal «mio corpo»? La seconda è nell´intrusione quasi inavvertita del piacere della proprietà privata: «padrone» del «mio» corpo. Si capisce che sia la naturale replica a chi pretende di espropriarmi del mio corpo e sottoporlo a una proprietà altrui - dello Stato, della società, di Dio, e Dio sarebbe il più offeso di tutti di una supposizione così patrimoniale. Forse si può licenziare l´idea che io sia padrone del mio corpo, o il suo vendicativo reciproco, che io finisca prigioniero del mio corpo, e dire più semplicemente che io sono il mio corpo. Temiamo di mancare di riguardo all´anima, o alla mente, o allo spirito, e a qualunque altro battito che non si esaurisca nel corpo e magari gli sopravviva: e tuttavia anche la mia anima e la mia mente e il mio spirito esistono nel mio corpo vivo, e solo in esso sono i miei, sono me. Le donne, che dell´espropriazione del corpo, anche senza il pretesto della malattia, anzi con l´attribuzione di una debolezza naturale, sono specialmente esperte, lo vollero rivendicare, contro i maschi e lo Stato (maschio) e le presunte ragioni della collettività dichiarando: «Io sono mia». Bello slogan, per il momento: alla lunga, per così dire, è più bello rinunciare al possessivo. «Io sono io» - piuttosto che mia e mio. Io sono io, e la manomissione della mia libertà non è solo l´appropriazione indebita di uno Stato, di una Chiesa, di un Partito e di una Ragione collettiva, bensì la violazione sacrilega della mia persona.

È questa violenza, tanto più penosa quando è più inavvertita e anzi scandalizzata e ispirata, a suggerire la messa al bando dei «casi singolari» come irrilevanti alla definizione della norma, e la superstizione delle parole, come «eutanasia». Nel primo caso si dice: non si può commisurare la legge a un caso particolare - dunque la legge deve passar sopra, alla lettera, al caso particolare, e schiacciarlo. Nel secondo si proclama: mai, anzi, MAI, ammetteremo anche solo di prendere in esame l´accettabilità dell´eutanasia - dunque la categoria generale, un nome, basterà a escludere il caso particolare, la sua povera carne e le sue ossa rotte, e a schiacciarlo. «Rivoglio la mia morte, niente di più, niente di meno!» Così Welby: abbiamo già sentito questa cosa, no? «... E nell´ora della nostra morte». Della nostra, dunque. E così sia.


Adriano Sofri
• da La Repubblica del 5 dicembre 2006, pag. 1

4 commenti:

alba ha detto...

Il 18 Novembre il co-Presidente dell’associazione Coscioni, Piergiorgio Welby, ha scritto ai Presidenti Bertinotti e Salvi una lettera rimasta inedita e censurata, nella quale ha scritto:

"Poiché continuo ad essere sottoposto ad un’atroce tortura a morte/vita, costretto a sofferenze inimmaginate, che in altri Paesi sarebbero inimmaginabili;
Poiché mi sembra evidente che sono punito per il fatto che, da radicale e nonviolento, rifiuto soluzioni clandestine – che tutti confermano essere a portata di mano - solo perché voglio onorare il diritto, applicare diritti condivisi – a chiacchiere - dal Potere;
Poiché corrispondo alla Sua attenzione ed a quella di tanti rappresentanti delle nostre istituzioni;
Le chiedo di dirmi se vi sia, a Suo avviso, altra via dignitosa rispetto a quella di realizzare un'azione di "affermazione di coscienza" e conseguente autodenuncia, commutando così l'avvenuta sottrazione alla tortura cui sono illegittimamente sottoposto in reato, in crimine per la... Repubblica italiana."

Per cercare risposte a quella lettera diverse persone sono già al decimo giorno di sciopero della fame.

Car** amic**, anche io voglio sostenere la lotta di Piergiorgio Welby e parteciperò allo sciopero della fame nelle giornate di lunedì 5 e martedì 6 dicembre.
Se, come spero, condividete con me la lotta di Piergiorgio per il suo, per il nostro, diritto a scegliere ciascuno la propria vita, in libertà e dignità, potete farlo e comunicarlo a questo link
http://www.lucacoscioni.it/eutanasia_welby/form.php
Ma sarei felice e onorata di avere da ciascun* di voi una risposta affermativa a questo invito

Grazie e mi scuso anticipatamente per chi di voi riceva questo appello in duplicato

alba ha detto...

Caro Piergiorgio,
ho letto e apprezzato per anni i tuoi messaggi, senza sapere nulla della tua vita. Me ne dispiace e me ne scuso.
Ma se possibile aggiunge un valore in più al tuo pensiero. Nella mia esperienza scolastica ho avuto l'onore e il privilegio grandissimo di poter conoscere giovani studenti nelle condizioni in cui tu ti trovavi da tempo.
Ho lavorato con loro, con tutto l'amore e il rispetto di cui sono stata capace e ho potuto certamente dargli ben poco, mentre in cambio ne ho ricevuto un insegnamento d'amore che non dimenticherò mai.

So che la maggior parte di essi non c'è più, ma nel mio cuore continua a vivere forte come non è mai stato, assieme al dolore profondo di sapere che ciascuno di essi è stato condannato, contro la sua volontà e senza potervisi opporre, fino all'ultimo, alla tortura che tu sei costretto a subire ora, impotente a impedirlo in alcun modo.

Trovo tutto questo di una ingiustizia così assoluta e profonda che mi riesce difficile esprimerlo. Nessuno, in nome di nulla, deve poter avere il potere di condannare qualcuno alla tortura per morire.
Basta già la sofferenza che si deve attraversare per vivere, con mente libera e limpida sincerità, in un mondo che privilegia l'ipocrisia e la violenza dell'arroganza del potere di uomini su uomini, predicando che bisona amare il proprio prossimo come sé stessi e non bisogna fare a nessuno ciò che non si vorrebbe personalmente subire, ma senza applicarlo nella pratica, impedendo a chi lo vuol fare di riuscirci e consigliandolo a pregare....

Ammiro il tuo coraggio e la tua forza.
Unisco ad essa la mia ( poca, ma amorosa) e spero che tu riesca quando vorrai a ottenere ciò che ti spetta
alba

Anonimo ha detto...

A chi appartiene la tua vita?
di Paolo Flores D'Arcais

La risposta alla domanda 'a chi appartiene la tua vita?' non può
essere,
dunque, che ovvia e scontata. Nella lingua italiana, una domanda la cui
risposta è scontata si definisce domanda retorica.

Eppure, dare nei fatti la risposta ovvia e scontata a questa domanda
retorica può costare, in Italia, fino a quindici anni di carcere. Tale
è la
pena massima prevista per il reato di assistenza al suicidio. Se io,
tu,
lui, lei, vogliono decidere sulla propria vita, e considerandola ormai
non
più esistenza ma tortura, mero bios di sofferenza inenarrabile,
decidono di
porvi fine, e in questa decisione chiedono l'aiuto della persona più
cara
(solo un amore davvero grande sa dare un tale tragico aiuto, sa
rispettare
fino all'estremo l'autonomia della persona amata, sa sacrificare il
proprio
egoismo, che spinge a tenere la persona amata comunque in 'vita', anche
contro la sua volontà), questa persona dovrà scegliere: o condannare la
persona amata al prolungamento della tortura cui la sua 'vita' è
ridotta (e
se sia insopportabile tortura o meno, solo chi vive la propria
sofferenza ha
titolo per pronunciarsi) o spingere il proprio amore fino a fornire
l'aiuto
richiesto. E - in aggiunta al dolore della perdita più cara - rischiare
quindici anni di carcere.

Il nostro civilissimo mondo, insomma, non prende affatto sul serio (a
parte
la veramente civile Olanda) che la tua vita appartiene a te
(appartiene: non
uso il congiuntivo pour cause), presupposto di ogni tua altra libertà.
Nel
nostro civilissimo mondo la tua vita appartiene allo Stato e alla
Chiesa.
Cioè ad altri uomini come te, mortali e fallibili come te, e che mai
accetterebbero che sulla loro vita decidessi tu, ma che sulla tua vita
si
arrogano la sovranità ultima e suprema. Per il 'tuo' bene, ça va sans
dire,
cioè per il loro bisogno (il loro 'bene'!) di imporre la loro ideologia
anche a te che la rifiuti, e riguardo a ciò che ti è esistenzialmente
(cioè
essenzialmente) più proprio.

*Questa pretesa, un tempo, si chiamava totalitarismo*. Non ha nessun
senso,
infatti, replicare che la vita non appartiene a chi la vive ma è un
dono di
Dio. A parte la circostanza che un dono che non si può rifiutare non è
più
un dono ma una condanna (una 'condanna a vita' è non a caso
l'espressione
che si usa per l'ergastolo, non per la democratica 'ricerca della
felicità'
che la Costituzione americana mette tra i diritti umani
imprescrittibili).
Se la tua vita non appartiene a te, infatti, appartiene inevitabilmente
a
qualcun altro, in carne e ossa come te, mortale e fallibile come te. E
prepotente su di te.

Cosa significa, infatti, che la vita non appartiene a chi la vive ma
appartiene a Dio? A quale Dio? Al Dio di chi lo invoca per decidere
sulla
tua vita, evidentemente. Ma il suo Dio può non essere il tuo Dio. E il
tuo e
il suo possano essere lo stesso Dio, ma l'interpretazione della sua
parola
può essere agli antipodi tra voi che pure lo invocate entrambi (a
proposito
di suicidio assistito è quanto accade tra cristiani valdesi e cristiani
della gerarchia cattolica). Oppure il suo Dio è per te solo flatus
vocis,
creazione cangiante delle culture umane, poiché il tuo umanesimo
radicale
non contempla Dio come creatore e la sua parola (sempre pronunciata da
un
uomo, mortale e fallibile come te, sia esso Profeta o Pontefice) come
legge.
E in una democrazia il credente e il non credente e il diversamente
credente
hanno gli stessi diritti.

Ma il primo dei diritti, anzi il meta-diritto che rende possibile
qualsiasi
altro diritto, è il *diritto alla vita, alla propria vita, non alla
'ideologia della vita' di qualcuno*. *Se in nome di una ideologia
'altruistica' qualcuno volesse porre fine alle tue sofferenze,
grideresti
giustamente all'orrore: la tua vita appartiene a te (o al Dio che tu
hai
scelto, il che è equivalente). Eppure, in nome della tua ideologia,
vuoi
imporre la tortura a chi invece non vuole subirla perché non la
considera
più 'vita'. Vuoi dunque espropriarlo della sua vita, e della decisione
ultima e più propria.*

Eppure a scuola leggiamo classici dove farsi uccidere (da uno schiavo,
o da
un amico) è sublime eroismo, eppure al cinema impariamo che lasciare il
commilitone atrocemente ferito e impossibilitato alla fuga, anziché
esaudire
la sua invocazione al colpo di grazia, sarebbe atroce sadismo, e
sadismo
sarebbe non equipaggiare di pasticca al cianuro l'agente paracadutato
oltre
le linee, che rischia, con la cattura, la tortura. Eppure, nessuno ha
voluto
condannare la decisione dei medici di un ospedale di New Orleans di
sopprimere con la morfina malati terminali che sarebbero stati
abbandonati
(e anzi nessuno ha voluto più parlare dell'episodio, e meno che mai
perseguire i medici).

Perché in realtà siamo tutti perfettamente consapevoli che se non si
può
invocare la sovrana volontà di Dio (e non si può, se non in una
teocrazia
totalitaria) non resta più un solo argomento per sanzionare penalmente
il
suicidio assistito, cioè la decisione di chi non vuole più scegliere la
tortura anziché la morte. Di questo su MicroMega abbiamo scritto da
tempo
(sul numero 2/97, e 1/99, e infine - in dialogo con il cardinal
Tettamanzi -
sul numero 1/2001). Ogni cittadino che scelga il primato dell'uomo in
carne
ed ossa contro le sopraffazioni totalitarie dell'ideologia (teocratica
o
meno) deve dunque ringraziare il professor Veronesi, che con il suo
libro
sull'eutanasia, cioè contro la tortura di Stato e di Chiesa, costringe
l'omertà del pensiero unico a venire allo scoperto. Il suo è un libro
dalla
parte della vita, poiché è purtroppo parte della vita la possibilità di
una
condanna a morte non preceduta da reato alcuno, e accompagnata da
tortura
insopportabile. E sarà difficile accusare il clinico italiano forse più
famoso nel mondo (e famoso per aver salvato infinite vite) di voler
replicare gli orrori nazisti (si è sentita anche questa, e senza
vergogna),
di voler diffondere una cultura omicida, o anche solo di voler
banalizzare
la morte.


Dall'Unità del 29.11.2005

articolo di Paolo Flores d'Arcais in apertura del numero di MicroMega

Anonimo ha detto...

A* chi appartiene la tua vita? La stessa formulazione grammaticale e
sintattica tradisce l'assurdità della domanda. Per essere tua, la tua vita non può appartenere che a te.
Se appartiene ad altri non è più tua, e tu sei semplicemente lo schiavo di colui, o coloro, cui la 'tua' vita appartiene.



Io vedo anche un possibile parallelo nella problematica della liberta'
di impresa capitalistica:
liberta' di comprare, vendere affittare, fare liberamente contratti di
lavoro, commercio, etc.
Provate voi stessi a vedere i paralleli in concreto.