Sintesi proposte scaturite dal Convegno “Donne, violenza e diritti negati”
Uil Milano e Lombardia
Coordinamento Pari opportunità
Proposte di azioni di carattere politico
- Protocollo d’intesa con Provincia, Regione e Associazioni datoriali al fine di ricomprendere le vittime di violenza in specifici percorsi di inserimento o reinserimneto nel mercato del lavoro, percorsi che possono avere attuazione pratica anche all’interno dei piani di azione per i soggetti svantaggiati nel mercato del lavoro.
- Intesa con ASL, Associazioni del terzo settore e i servizi dedicati delle Amministrazioni locali (ad esempio Sportello Rosa del Comune) su modelli già adottati per l’area dello svantaggio, mirata a:
o formazione dei delegati sindacali (delegato sociale) al fine di fornire loro gli strumenti e le conoscenze specifiche per poter affrontare in azienda il problema;
o azioni di promozione presso le cittadine dei servizi di assistenza psicologica e di riabilitazione esistenti, delle iniziative sul tema, dei diritti per il risarcimento e l’assistenza;
o messa in rete e potenziamento, anche attraverso azioni sinergiche, dei servizi;
o monitoraggio degli atti di violenza, non solo a fini quantitativi/statistici, ma per comprenderne le cause e quindi cercare azioni specifiche anche di prevenzione delle stesse;
- Dare attuazione a servizi dedicati alle donne immigrate che siano a livello linguistico adeguati e che ponga attenzione alla componente culturale di provenienza delle persone che prendono in carico, quindi favorire la presenza e la formazione di mediatori culturali;
- Promuovere azioni di informazione e sensibilizzazione nelle famiglie, nelle scuole, nelle università, nei luoghi della politica, dell’informazione e del lavoro per sostenere una cultura della “non violenza” e del diritto.
Proposte di azioni di carattere contrattuale
- Accordo con il Comune per vitalizzare quanto previsto contrattualmente e rafforzare l’impegno nei confronti delle dipendenti, facilitando l’accesso ai servizi di sostegno e aiuto, nonché agevolando la partecipazione a percorsi “di cura”;
- Sperimentare nelle aziende pubbliche e private di azioni di Responsabilità Sociale di Impresa che prevedano percorsi di inserimento mirato o di reinserimento dopo il percorso di cura;
- Agevolazioni attraverso Fondi degli enti locali che siano a supporto dell’autoimprenditorialità e verso le aziende che assumono tempo indeterminato donne vittime di violenza;
- In sede di rinnovo contrattuale si dovranno prevedere forme per riconoscere il diritto ad usufruire di permessi retribuiti per le donne che affrontano le conseguenze di questo dramma sociale.
ALLEGATO 2
Relazione introduttiva
di Teresa Palese
Responsabile delle Politiche femminili
Uil Milano e Lombardia
palese@uilmilomb.it
Milano, 16 novembre 2006
DONNE, violenza e diritti negati
Nell’ambito delle iniziative organizzate nel territorio in occasione della “Giornata internazionale contro la violenza alle donne” che, in tutto il mondo, si celebra il 25 novembre, le donne della Uil Milano e Lombardia hanno pensato questo Convegno per avviare un percorso di sensibilizzazione, a partire dalla nostra organizzazione, sul fenomeno della violenza sia nei posti di lavoro che fuori.
Quando noi donne parliamo di violenza intendiamo ogni forma di abuso di potere esercitato attraverso il sopruso: dall’omicidio allo stupro, dalle percosse alla costrizione, dalla persecuzione alla negazione della libertà negli ambiti familiari, sino alle manifestazioni di disprezzo del corpo femminile.
Per le donne della Uil la violenza, che sia fisica, sessuale, psicologica o economica, è la pura violazione dei diritti umani e, talvolta, l’assenza di leggi adeguate, e il silenzio, sono complici di tali violazioni.
Assistiamo inermi alla violenza “degli uomini sulle donne” soprattutto nei paesi cosidetti “evoluti” dell’Occidente democratico: una ricerca del Consiglio d’Europa afferma che l’aggressione maschile è la prima causa di morte violenta per le donne in tutto il mondo, e che almeno 1 donna su 3 ha subito violenza almeno una volta nella vita.
“In Italia uccide più la famiglia della mafia” afferma Guido Papalia, Procuratore della Repubblica di Verona. Eppure nessuno è ancora sceso in piazza, le carovane contro il femminicidio non le abbiamo ancora viste.
L’organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha calcolato che circa la metà della popolazione femminile mondiale subisce violenza all’interno delle mura domestiche e stima che in Italia ne siano vittime il 25% delle donne, 1 su 4. Ma i dati non sono certi, potrebbero essere molte di più, vista l’omertà che ancora vige per paura o per quieto vivere.
Appare invece chiaro che l’Italia è uno dei pochi Paesi dell’Unione europea che ancora non si è dotato di una legislazione specifica. Da noi non si procede d’Ufficio per i casi di aggressioni familiari, mentre la legge 154 del 2001, quella che recita “Misure contro la violenza nelle relazioni famigliari”, è vaga e inadeguata a punire i colpevoli.
In Italia, sulla materia, lo Stato è ancora latitante: manca un programma nazionale e tutto quello che si fa è delegato alla buona volontà delle micro - realtà: Comuni, Associazioni femminili, Centri antiviolenza e di ascolto.
Forse i nostri politici, a partire da quelli che si dichiarano “riformisti”, e che scrivono fiumi di parole su come dovrebbe essere “riformato” il nostro Paese, dovrebbero imparare dalla Spagna su come si combatte il “femminicidio”.
Zapatero, e il suo esecutivo, formato per metà da donne, ha portato il Paese all’avanguardia facendo approvare, il 22 dicembre 2004, una legge applaudita in tutta Europa. Una legge che tutela le donne dalla violenza.
La legge prevede di creare in tutte le province, una sorta di giudice speciale con una formazione specifica in reati familiari. Da noi sarebbe vietato dall’art.102 della Costituzione. Questo giudice, che ha funzioni sia civili che penali, seguirà tutto l’iter legale della coppia.
In più viene istituita la figura del Fiscal, un’autorità di controllo specifica contro la violenza alle donne.
Il giudice può emettere la sentenza anche in 24 ore, tagliando i tempi d’attesa e facendo così sentire protette e seguite le vittime. Per i “maltrattatori” sono previste pene severe e un regime carcerario speciale. Al coniuge recidivo viene imposto il braccialetto elettronico.
Nelle scuole, a scopo preventivo-educativo, la legge Zapatero ha previsto un esame obbligatorio per tutti gli studenti in “Educazione per l’Uguaglianza contro la Violenza di genere”.
Il cuore della legge è la struttura di supporto creata per le vittime, che va dal gratuito patrocinio a un nuovo modello di diritto al lavoro.
Le donne che hanno subito violenza domestica hanno diritto ad essere reinserite e,soprattutto, possono chiedere di adattare o ridurre l’orario di lavoro.
Nasce un fondo economico a sostegno di queste donne, all’interno di una rete completamente gratuita di supporto medico, psicologico e finanziario.
E da noi? Solo quando sono le cronache ad imporre l’argomento, assistiamo a dichiarazioni roboanti, che poi si risolvono nel nulla.
Alcuni dati
Dai dati forniti dalla Cooperativa Sociale “Cerchi d’Acqua”, che opera nella provincia milanese, il 62% delle donne che subisce maltrattamenti in famiglia ha un’età compresa tra i 18 e i 62 anni. Non sono trattati casi di minori.
Tale violenza si consuma soprattutto tra le pareti domestiche, il luogo più pericoloso per le donne, il luogo dove dovrebbero sentirsi al sicuro, dove l’aguzzino è il marito, un parente, un amico.
E questi sono i casi più difficili da denunciare perché esiste un legame affettivo, o di dipendenza economica o psicologica.
Siamo di fronte a un aumento di queste violenze oppure a un aumento delle denunce da parte delle donne?
Sappiamo che nei casi di violenza sessuale solo l’8% delle donne denuncia lo stupratore, che l’82% delle denunce arriva da donne di nazionalità italiana. Tra loro il 63% è occupato e il 43% svolge una professione medio alta.
Ma chi sono questi uomini che maltrattano le loro compagne?
Dai dati in nostro possesso 2 su 3 sono occupati, il più delle volte, contrariamente a quanto si crede, la metà ha un titolo di studio medio alto e una professionalità medio alta.
Solo 1 su 4 ha specifici problemi legati all’alcolismo, alla tossicodipendenza e al disagio psichico. Gli altri sono impiegati, professionisti, ecc., cioè “colletti bianchi”.
Sulla stampa prevalgono gli stereotipi
Questi dati ci dicono che il fenomeno della violenza è trasversale per censo, per età, per scolarizzazione, per appartenenza religiosa e geografica.
Ciò che accomuna i violenti è spesso un passato infantile di soprusi subiti o assistiti.
Ma spiega anche perché la condanna è più forte nei paesi occidentali o negli organismi soprannazionali che condividono la cultura democratica dei diritti umani.
Questi dati fanno giustizia di una serie di stereotipi ampiamente utilizzati dai “media” per convalidare la “strategia politica” di incentivare la paura per il diverso.
Stereotipi che, in parte, hanno raggiunto il fine prefissato, ma che hanno avuto anche il deleterio effetto di offuscare la ragione e allontanare qualsiasi seria riflessione su comportamenti culturali consolidati nei millenni che possono essere alla base della sostanziale accettazione della violenza sulle donne (anche da parte delle donne stesse) presente in tante culture, compresa la nostra.
E in parte motiva, ma non giustifica, la violenza, o particolarmente efferata o subdola, di uomini che con la violenza sulle donne cercano di confermare o ristabilire il proprio ruolo di potere, e in definitiva, la consolatoria percezione di sé come unico e primario soggetto di diritto.
Soggetto che, con la violenza e lo stupro, attesta anche di avere dei diritti su ciò a cui legalmente non ha diritto.
I media spesso selezionano i fatti, fermandosi superficialmente al fatto di cronaca, che può dar luogo allo scoop o a una reazione emotiva per finalità politico- scandalistiche, senza affrontare con determinazione la diffusione del fenomeno, e le sue cause profonde, per costruire una reale consapevolezza e condanna sociale.
Sarà perché i giornalisti sono in maggioranza uomini?
I bambini che assistono alla violenza
Accanto a questi dati, c’è uno più agghiacciante: sono il 90% i bambini che assistono a episodi di violenza domestica, spesso inermi, con conseguenti traumi che manifesteranno a breve, medio e lungo termine, con reazioni e comportamenti che vanno dall’abuso di alcool fino all’uso di droghe. Molti abbandonano la scuola o hanno gravi problemi di apprendimento.
Bambini che sono potenziali adulti con gravi disturbi del comportamento e della sessualità.
Molti da adolescenti scappano da casa, altri tentano il suicidio dopo aver sviluppato disturbi mentali.
Talvolta questi ragazzi si identificano con l’aggressore fino a ritenere la violenza sulle donne un comportamento normale e accettabile.
Abbiamo detto prima che spesso ciò che accomuna i violenti è un passato infantile di soprusi assistiti o subìti: per questo l’allarme sui dati che coinvolgono i minori deve essere alto.
Quali sono le conseguenze riscontrate sulle donne che hanno subìto violenza?
Tra le donne che hanno subìto violenza sono state riscontrate patologie come depressione, stati d’ansia, attacchi di panico o, ancora, fobie, sensi di colpa, fino a episodi di tentato suicidio.
Molte di loro, poi, entrano ed escono per lunghissimi periodi dai reparti psichiatrici.
Spesso tra queste donne si riscontra l’indebolimento e, in alcuni casi, la totale perdita della capacità lavorativa.
Di frequente, sono proprio i loro partner ad indurle ad abbandonare il lavoro.
Quindi possiamo affermare che il fenomeno della violenza sulle donne si ripercuote su tutta la società e, come tale, deve essere riconosciuto come un “grave problema sociale”.
Mai come oggi è necessaria una presa di “coscienza collettiva” soprattutto da parte degli uomini affinché si determini una forte e generalizzata presa di posizione contro la violenza, in tutti i suoi aspetti.
Siamo certe che la presa di coscienza da parte degli uomini potrebbe assumere un potente valore simbolico, tramite indispensabile per attivare efficaci azioni culturali di contrasto.
Ed è proprio oggi, in questa sede, che chiediamo ai nostri compagni e colleghi sindacalisti di unirsi a noi in questa battaglia che “uccide più della mafia”.
Lavoro, precariato e violenza.
In ambito sindacale abbiamo riscontrato un aumento di segnalazioni e richieste di intervento su tentativi di molestie e abusi sessuali nei posti di lavoro nei confronti del personale precario.
Ve ne cito solo una che meglio esemplifica la problematica, ovviamente omettendo i soggetti interessati in quanto non autorizzata.
Chi ci scrive è Rosy, bidella in una scuola milanese, una nostra iscritta.
“Un mese fa un bidello ha chiuso una collega supplente in un laboratorio e ha cercato di violentarla. Alle sue urla si è fermato dicendole che se avesse detto qualcosa le avrebbe fatto perdere il posto di lavoro…Lei è stata zitta, poi però è stata davvero licenziata perché hanno chiamato dall’ufficio di collocamento altre persone (sotto consiglio del balordo). Allora ha deciso di fare denuncia al preside e alla polizia. Dopo due giorni però lei ha ritirato la denuncia perché dice che ha bisogno di lavorare. Siamo tutti sicuri che lei domani sarà riassunta qui. La cosa assurda è che tutti sono schifati perché il preside ha messo tutto a tacere. Il balordo va in giro tranquillo. E’ assurdo che in una scuola dove ci sono anche delle ragazze minorenni non si prendano dei provvedimenti. Questo preside se ne deve andare. Se puoi, come sindacalista e come donna, fai qualcosa a riguardo. Scrivi qualcosa, è importante che si sappia in giro”.
Questi casi non sono rari, e sono strettamente collegati all’aumento e alla condizione dell’ “essere precario”.
Ho preso ad esempio la Scuola, il settore che conosco meglio, perchè solo in Lombardia conta circa 30.000 precari, (18.000 docenti e 12.000 non docenti), di cui il 78,12% sono donne (dati Direzione scolastica regionale).
Sappiamo di certo che dove esiste il precariato, accompagnato da norme non chiare di reclutamento, aumentano i tentativi e le forme di molestie che non vengono denunciate, pena la perdita del posto di lavoro.
Impegno del sindacato: il delegato sindacale diventa delegato sociale
Queste forme di violenza, che trovano sempre più denuncia nel sindacato, sono in aumento e non possono essere sottovalutate da chi le riceve, o considerate “marginali” rispetto agli altri impegni dell’Organizzazione.
In particolare, noi crediamo che le strutture territoriali debbano diventare un punto di riferimento certo anche per queste “vittime”. Dove, chi arriva, si aspetta di trovare delegati sindacali attenti e preparati che sappiamo farsi carico del problema.
Solo così chi arriva potrà trovare la forza per contrastare i tentativi messi in atto da chi mina al mantenimento del posto di lavoro.
Vogliamo con ciò rilanciare il ruolo del delegato sindacale e farlo diventare “delegato sociale”, cioè punto di riferimento certo per le lavoratrici che subiscono violenze, sia nei luoghi di lavoro che fuori. In che modo?
Da un lato attraverso una specifica formazione alle Rsu e dall’altro diventando noi stessi parte della rete esistente sul territorio (rapporti con istituzioni, centri antiviolenza, associazioni,ecc…)
Il nostro impegno deve trovare luogo anche in sede di rinnovi contrattuali, dove si dovranno prevedere forme per riconoscere il diritto ad usufruire di permessi retribuiti, o orari flessibili, per le donne che dovranno affrontare le conseguenze di questo dramma sociale.
Queste donne, queste lavoratrici, non possono essere lasciate sole: per loro dovranno essere previste politiche di supporto individuale e famigliare.
A queste donne, e ai loro figli, le Istituzioni dovranno assicurare il diritto ad ottenere la casa prevedendo, ad esempio, maggiore punteggio nelle graduatorie per l’assegnazione; dovranno fornire loro assistenza per seguire percorsi di recupero psico – fisico completamente gratuiti, e tutto il supporto di cui potrebbero avere bisogno in seguito.
Per noi questo è lo “stato sociale” che funziona, cioè quello che si occupa concretamente delle famiglie che sono il nucleo fondamentale della società.
L’impegno del sindacato dovrà essere orientato a:
1. Trovare soluzioni concrete, insieme alle istituzioni e alle associazioni datoriali, nell’ambito dei programmi di inserimento e/o reinserimento al lavoro, per facilitare l’ingresso lavorativo, o il ritorno, delle donne che hanno subito violenze. Noi pensiamo, ed estendiamo l’invito a Cgil e Cisl, che nei programmi formativi finanziati ci sia una quota riservata a questa fattispecie di lavoratrici. Chiederemo quindi che dovranno essere facilitate dal punto di vista formativo, seguito da un orientamento al lavoro che aiuti, e accompagni, queste donne a tirare fuori quelle competenze professionali che faticano ad emergere a causa di situazioni di maltrattamenti, abusi, molestie. Tutto ciò dovrà essere seguito da accordi con le aziende per “azioni positive” finalizzate a quote di assunzioni programmate.
2. Trovare soluzioni concrete, attraverso accordi triangolari locali, tra istituzioni, sindacati e associazioni datoriali, che prevedano “fondi di compensazione” (a livello nazionale e/o regionale) per le aziende che saranno disponibili a dare permessi retribuiti alle lavoratrici per seguire i percorsi di recupero psico- fisico per sé e per i figli. Per queste aziende potrebbero anche essere previsti sgravi fiscali.
3. Potremmo anche cominciare a pensare come strutturare degli appositi sportelli di “accoglienza del disagio” anche in vista di un’estensione del fenomeno della violenza alle donne lavoratrici straniere, che già sono utenti dei diversi servizi che eroghiamo.
Queste sono le nostre proposte, questo sarà il nostro modo di celebrare questa triste ricorrenza, perché noi della Uil pensiamo che proprio il lavoro possa essere lo strumento privilegiato per recuperare autostima, status sociale, indipendenza economica e realizzazione di una personalità autonoma e indipendente.
Quindi una valida via d’uscita dalla violenza, in qualunque luogo e in qualsiasi modo si manifesti.
Inoltre, in occasione della “giornata mondiale contro la violenza alle donne”, le delegate della Uil organizzeranno 1 ora di assemblee in tutti i posti di lavoro per sensibilizzare i lavoratori.
In quella circostanza, sarà diffusa la brochure di Cerchi d’acqua.
Da oggi, le donne della Uil, lavoreranno affinché sulla questione si apra una riflessione pubblica nelle scuole, nelle famiglie, nelle università, nei luoghi della politica, dell’informazione, del lavoro.
Una riflessione comune capace di determinare una riconoscibile svolta nei comportamenti.
Inoltre, fin da ora, lavoreremo per raccogliere firme affinché si modifichino le leggi esistenti, e si vada verso una legislazione che preveda:
-processo per direttissima per gli stupri in strada e le violenze domestiche, al fine di dare certezza e immediatezza all’eventuale condanna, senza nessun “perdonismo” e nessuno sconto di pena.
-specificità del reato per le violenze domestiche e possibilità per i Comuni di costituirsi parte civile al fianco delle vittime al fine di sostenerle nel corso del processo;
-Maggiore attenzione nel rilevare i fenomeni di violenza psicologica ed economica, che preludono alla violenza fisica, da parte delle forze dell’ordine, opportunamente formate, che devono essere messe in grado di poter agire, modificando quelle norme, che attualmente impediscono qualsiasi intervento preventivo.
1 commento:
riflessioni di Lidia Menapace sui diritti delle donne
La recente presa di posizione dell'Udi di Napoli in materia di aborto mi sembra rispondere a diffuse preoccupazioni, che nascono ogni volta che si vede quanto dolore disprezzo e morte diffondono molti reputati "difensori
delle donne". Le quali sono cittadine e perciò hanno diritti da far valere, non lamenti da echeggiare con piglio patriarcale: primo compito della repubblica è per norma costituzionale, quello di rimuovere gli ostacoli che
impediscono la realizzazione dei diritti.
Enuncio in breve la tesi del mio dire: se dal presidente della
repubblica in santa alleanza col papa in giù tutti dicono che bisogna difendere le donne, aiutarle, dissuaderle dal fare male, ecc.ecc. e il risultato è
che le violenze soprattutto domestiche aumentano, le tragedie di madri disperate e sole non calano, ma anzi si ripetono, le violenze e ingiurie a lesbiche
non fanno nemmeno più notizia, se persino uno spettacolo televisivo molto equilbrato e delicato su un amore tra donne viene criticato acerbamente e si invoca la censura, non solo ciò significa che si viola il diritto e si
disprezzano le cittadine, come se fossero delle minus habentes, ma
anche che i distributori di "consigli e tutele" non servono davvero e anzi accentuano il disagio.
Se alle donne in quanto cittadine di pieno diritto non vengono date informazioni a cominciare dalla scuola e poi nei consultori e con seminari
sulla contraccezione e non viene favorito l'accesso alle tecniche di
riproduzione assistita quando servono e non sono messe in condizione di decidere e avviate a realizzare la loro decisione, la nostra situazione tende a diventare peggiore e addirittura peggiore di quando vigeva una
diffusa oppressione legata a molti diritti negati. Infatti allora le
donne erano organizzate in forma clandestina, spesso si trasmettevano cognizioni
ed esperienze su come comportarsi in caso di parti non desiderati,
come sottrarsi alle attenzioni non volute del marito, come non restare incinte, come trovare chi procurava aborti, e addirittura l'infanticidio era tollerato o mascherato.
Situazione certo terribile disumana e crudele, contro la quale abbiamo lottato a lungo tenacemente, trovando consensi tra tutte le donne di qualsiasi condizione sociale culturale e religiosa, e alla fine ottenendo
una buona legge sull'aborto e una discreta legge contro la violenza
sessuale. Anticamera di tutto ciò erano state la riforma del diritto di famiglia e il divorzio.
Tutto questo sistema si regge sul pieno riconoscimemto della
cittadinanza delle donne: se viene meno -anche di poco- tutto questo, si ripiomba nella barbarie e anche peggiore di quella lottata anni addietro, perchè non esistono più le forme arcaiche di sostegno, i rapporti nelle famiglie allargate e i legami nelle fabbriche e uffici e campagne e
cortili, necessari allora per difendersi da un assetto giuridico infame che condannava l'aborto e vietava addirittura l'informazione contraccettiva,
non perseguiva la violenza sessuale in famiglia (nemmeno l'incesto), difendeva ll delitto d'onore ecc.ecc.
Se vien meno anche di poco il diritto, la barbarie è in agguato.
Chiunque anche in buona fede si rivolge alle donne come bisognose di tutela consiglio dissuasione è -anche involontariamente- complice della crescente barbarie.
Lo dicono ormai molte prese di posizione da "Usciamo dal silenzio", da " 194 parole di libertà", da "No vat".
Il nodo è quello della cittadinanza: è inutile e anzi irritante fare dei bei discorsi ogni tanto nelle ricorrenze, se poi nella vita quotidiana le
maggiori autorità offrono assistenza e non diritti. Per di più conformando i loro giudizi alle pressioni e pretese della gerarchia cattolica, che i
diritti delle donne nemmeno riconosce e ancora ha un ordinamento non democratico e una forma di stato che non può nemmeno far parte dell'Unione europea, per questo. Come faccia il papa a dire che appoggia l'entrata
della Turchia in Europa proprio non si capisce: ma la religione ha i suoi misteri.
Posta un commento