Signor Direttore,
sono Piergiorgio Welby, che ha preso il posto di Luca Coscioni quale Presidente dell'Associazione radicale che porta il suo nome, e come esponente della costellazione di soggetti politici Radicali, nazionali e internazionali, che operano con e attorno al Partito Radicale.
Ormai, 77 "giorni" fa, mi sono rivolto pubblicamente, personalmente, politicamente, al Presidente della Repubblica, quale supremo Garante del rispetto della Costituzione, della legalità repubblicana; per ottenere finalmente l'esercizio del mio diritto naturale civile politico personale ad una mia morte - naturale -. Solo modo possibile per conquistare (anche in Diritto) pace per questo "mio" corpo altrimenti sempre più straziato e torturato. Sequestratomi, per una kafkiana imposizione "etica" dall'ordinamento e del potere burocratico, o anche a esso imposto. Dobbiamo tutti - credo- gratitudine per la qualità, l´importanza, della Sua risposta e delle Sue esortazioni che hanno indubbiamente consentito il grave e grande dibattito che unisce, anzichè dividere, coloro che vi partecipano, che non sono indifferenti.
Signor Direttore,
Come già Luca Coscioni, a mio turno sono oggi oggetto di offese e insulti, di pensieri, parole, aggressioni alla mia identità ed alla mia immagine, quasi non bastassero quelle perpetrate al corpo che fu mio e che, invece, vorrei, per un attimo almeno, mi fosse reso come forma - qual è il corpo - necessaria del mio spirito, del mio pensiero, della mia vita, della mia morte; in una parola del mio "essere".
Sono accusato, insomma, di "strumentalizzare" io stesso, la mia condizione per muovere a compassione, per mendicare o estorcere in tal modo, slealmente, quel che proponiamo e perseguiamo con i miei compagni Radicali e della Associazione Luca Coscioni, che ha ragione ormai antica e sempre più antropologicamente, culturalmente, politicamente forte; "dal corpo del malato al cuore della politica". O, ancora, non sarei, come già Luca Coscioni, che io stesso strumentalizzato dai "miei", così infamandoci come meri oggetti o come soggetti plagiati. (O indemoniati, vero... Signori?). Strumenti? Sono, invece, limpidi obiettivi ideali, umani, civili, politici.
Dalla mia prigione infame, da questo corpo che - per etica, s'intende - mi sequestrano, mi tornano alla memoria le lettere inviate alla... "politica" da un suo illustre, altro, "prigioniero": Aldo Moro. Pagine nobili e tragiche contro gli uomini di un potere che aveva deciso di condannarlo (anche lui per etica, naturalmente) a morte certa, anche lui ad una forma di tortura di Stato, feroce ed ottusa. Quelle pagine non potrei farle mie. Anche perché furono perfette, e lo restano.
Un pensiero, ancora, un interrogativo, un dubbio: dove sono mai finiti per tanti "credenti" Corpo mistico e Comunione dei Santi?
Comunque Addio, Signori che fate della tortura infinita il mezzo, lo strumento obbligato di realizzazione o di difesa dei vostri valori! Chi siano (e in che modo) i morti o i vivi che rimarranno tali quando saremo tutti passati, non sappiamo, né noi né voi.
Io auguro a voi ogni bene. Spero davvero (ma temo fortemente che così non sia), spero davvero che questo augurio vi raggiunga, si realizzi, perché questo "voi" oggi manca anche a me, anche a noi altri.
Per finire, grazie Signor Direttore per la sua tollerante attenzione. A questo mio estremo, ultimo tentativo di trasmettere parola. Grazie sincero,
Suo
Piero Welby
p.s. Chiedo - ringraziandoli fraternamente - alle oltre 700 mie compagne e compagni, antiche e nuovi, che sono in sciopero della fame, alcuni al sedicesimo giorno, di sospendere questa loro forma di lotta, che ha contribuito in modo determinante al radicamento di un nuovo grande momento di dialogo e di conoscenza a tutto il Paese.
8 commenti:
Bruxelles, 9 dicembre 2006
Mi sembra che nella vicenda che colpisce e ferisce l’immagine stessa della “politica” e dello Stato italiani vi sia una semplicissima realtà che si cela dietro la solita cortina di nebbie ideologiche e cala sull’Italia e tutti noi soffocandoci.
La realtà del “caso Welby” si riduce a questa semplice scelta impostagli: morire in queste ore o nei giorni, se non settimane, prossimi, ucciso per soffocamento, con una agonia atroce; o morire, se possibile, alcune ore o giorni prima, serenamente, sedato. E’ un caso clamoroso ed infame di accanimento terapeutico. L’eutanasia, qui, non c’entra, c’entra invece una realtà italiana difficilmente immaginabile altrove, anche a Teheran.
Marco Pannella ( da Radicali.it)
Tra Welby e Binetti
L'editoriale
da L'Unità del 10 dicembre 2006, pag. 1
di Furio Colombo
Le dichiarazioni - che in politica sono azioni e sventolano come bandiere su posizioni occupate - si susseguono. Insieme compongono un quadro che disegna i confini morali dell'Italia. Mercoledì Gianfranco Fini, il vice senza diritto di successione nella casa di Berlusconi ma pur sempre vassallo di grande potere, dichiara: «Staccare la spina di Welby è omicidio». Vuol dire che se Welby ci mette un anno a morire soffocando ogni minuto che noi siamo qui a discutere, sono fatti suoi. In altre parole è corso al letto dell'uomo caduto nella morsa del dolore per dire «Va bene così» e anzi minacciando chi avesse intenzione di intervenire.
Giovedì la Sen. Binetti, collega di Senato e di schieramento e di sentimenti umani e civili, dice al Corriere della Sera: «È stata una bellissima giornata». Vuol dire che è riuscita a impedire, con la sua esuberante irruzione nella cosiddetta cabina di regia della legge finanziaria, che i reietti di quel sottomondo detto "coppie di fatto" possano godere di benefici fiscali nel triste evento della successione e di ciò che resta al sopravvissuto. In altre parole è come se la Sen. Binetti fosse corsa da quella signora, vedova di uno degli italiani che hanno perso la vita nell'attentato di Nassiriya, per cacciarla un'altra volta dai palazzi dello Stato in cui non è mai stata ammessa, dalle chiese che l'hanno relegata da sola in fondo.
Come ricorderete la signora Adele Parrillo non era una vera vedova ma nient'altro che una convivente del caduto Stefano Rolla. Cioè nessuno, clandestina alla funzione funebre in chiesa e poi messa cortesemente ma fermamente alla porta al Quirinale, quando lo Stato ha celebrato i morti di Nassiriya. Morto o non morto in guerra, un convivente resta un escluso e la sua compagna si può respingere tranquillamente alla porta senza scandalizzare nessuno.
Franca Rame ha coniato, a sue spese per Adele Parrillo, una medaglia d'oro che le e stata donata in una piccola cerimonia privata. Ma su certe violazioni, come il non sposarsi (meglio se in chiesa) in Italia non si scherza: niente Chiesa e niente Stato.
«Ma che si sposino!», esclama esasperata la Sen. Binetti (evidentemente senza rendersi conto di parodiare Maria Antonietta) per liquidare le civili obiezioni di chi la intervistava (Angela Frenda, Corriere della Sera, 8 dicembre) sulle coppie di fatto. Ma prima aveva parlato di "felicità": «La mia felicità, la sensazione di aver ottenuto un successo» per avere impedito uno sconto di tassa al convivente che veglia il feretro della persona amata.
La multa sul feretro imposta gioiosamente dalla Binetti a chi ama e a chi piange - ma non secondo le regole della Binetti - non può che generare un grande imbarazzo. Infatti come distinguere la "certezza della pena" di Fini, che evoca l'ergastolo per chi si accosta al letto di Welby, e la "felicità" di Binetti che ha imposto con un colpo di mano la sua visione teologica, dal fondamentalismo che intende ignorare ogni confine fra vita e fede e impone che la fede sia legge?
È l'indifferenza a fatti veri, vere sofferenze, veri problemi, solo perché la descrizione (che è poi la rilevazione realistica) di questi fatti non coincide con la pala d'altare della buona morte da un lato (dove i raggi della fede e la mano dell'angelo spuntano come un invito celeste dalle nuvole scure) e con la descrizione della casa tenuta in ordine dall'angelo del focolare debitamente sposata in chiesa e solo per questo affidabile sposa e madre amorosa, persino se abita a Cogne.
Sabato parla il Papa. E purtroppo le sue parole sono un intervento pesante, diretto, mai prima accaduto, sul governo italiano, solo sul governo italiano che ha annunciato una legge che esiste dovunque nel mondo e si forma sul rispetto giuridico, ma anche umano, dei diritti dei cittadini. I confini dell'Italia, a cui in esclusiva viene dedicata questa immensa pressione, si fanno piu stretti.
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Possibile che sfugga del tutto la dimensione della carità che è stata, anche nei momenti più difficili, il grande canale di comunicazione fra credenti e non credenti, il messaggio di buona volontà con cui grandi cattolici e credenti anonimi hanno lasciato tracce di civiltà, di solidarietà, di comprensione e partecipazione attraverso confini che apparivano rigidi e impenetrabili, fra persone altrimenti condannate a sentirsi divise fra redenti e dannati? Che cosa è accaduto per indurre a calare mannaie così taglienti, per spezzare subito ogni legame con i miscredenti, dalla quantità della droga alla qualità dell'amore? Non li imbarazza il fatto che ad ogni passo contro il diritto alla vita - dunque alla morte meno crudele - di Piergiorgio Welby, contro il rispetto che si deve a una vedova non sposata e che non è bello scacciare dalla chiesa, contro l'amore che esiste, che accade, anche se non è omologato, fra donne e fra uomini, verso cui è solitamente dedicato, a livelli incivili, sarcasmo e disprezzo, non li imbarazza il fatto che prontamente si schiera l'Italia peggiore, da Borghezio ai fascisti («megiio fascista che frocio») come si è visto nella "marcia di Roma" di Berlusconi?
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Ci sono domande - in questa storia in cui circola aria gelida e nessuna fraternità - che restano senza risposta e che devono averla. Con che diritto io posso dire a qualcuno «ti devi sposare», a due persone che non si devono amare, a Piergiorgio Welby che deve soffrire come un cane fino a quando un teologo illuminato (ci sarà, ci sarà) descriverà la fine del dolore come una benedizione necessaria, l'amore come un dono di Dio e la violazione delle regole delle coppie poca cosa (se non un diritto) rispetto agli strazianti genocidi del mondo a cui si dedica la metà della metà della metà della nostra attenzione?
Sono sorpreso che i senatori-teologi che siedono in Parlamento e battono con furore sul banco il martello delle proibizioni, non abbiano notato l'accortezza del Papa, almeno in una situazione che non riguarda l'Italia. Eppure Benedetto XVI ha fatto capire bene che un conto è discutere di Islam in una Lectio magistralis a Ratisbona, e un conto è una visita di Stato all' Islam in Turchia, dove vince non l'intento ad avere ragione ad ogni costo ma quello, molto più grande, di capire, di essere capito e di costruire un passaggio ad ogni costo. È un peccato, una ragione di tristezza, che un simile criterio non sia stato adottato per l'Italia ne dal Papa né dai senatori che lo rappresentano.
Un po' aridamente, quando si parla di coppie, i senatori-teologi evocano con fervore l'art. 29 della Costituzione italiana che dice: «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio». Giusto. Ma quell'articolo definisce un modo di stare insieme, non ne proibisce un altro. E non occorre essere giuristi per sapere che la libertà di stampa si estende a Internet, che non esisteva quando è stata scritta la Costituzione. E che, dunque, un tipo di unione non ne impedisce un altro. E poi basta il buon senso per capire che due persone che si amano non sono e non possono essere in alcun modo offesa, rischio o pericolo per la famiglia tradizionale. Dal punto di vista del fatto e del diritto, è una affermazione impossibile. Infine perché ignorare gli articoli 2 e 3 della Costituzione che sanciscono la parte grande e inviolabile dei diritti della persona?
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Forse un modo esemplare di uscire da un confronto così poco generoso fra parlamentari che si sono nominati custodi dell'ortodossia e parlamentari e cittadini comuni (fatalmente l'aridità dei comportamenti incuranti e insensibili genera aridità di risposte che possono essere ingiustamente offensive) è assumersi subito la responsabilità del dolore di Piergiorgio Welby. Alcuni di noi, coloro che non possiedono il codice delle cose ammesse o vietate, quando si tratta della pena di un altro e sentono l'immensa ingiustizia, la intollerabile offesa, devono assumersi in questo momento il compito di porre fine a quell'immenso dolore. Lo faranno formando un comitato di emergenza deciso a non abbandonare Welby nella sua prigione infame. Adesso, subito.
Dopo l'appello di Welby lite sull'eutanasia
Le sue condizioni peggiorano, slitta la visita della Turco. Pannella: accanimento infame. Umberto Bossi: la vita la toglie Dio.
• da Corriere della Sera del 10 dicembre 2006
di Margherita De Bac
ROMA — Slitta la visita di Livia Turco a Piergiorgio Welby prevista oggi. Le condizioni del malato di distrofia muscolare, che ha scelto di rendere pubblica la sua «tortura» per contribuire alla battaglia sull'eutanasia e sul diritto a «una morte opportuna», sono in continuo peggioramento. La famiglia ha chiesto di rinviare l'atteso incontro.
UDIENZA — Potrebbe essere una settimana comunque decisiva. Martedì alle 12, comunica l'associazione Luca Coscioni, è fissata l'udienza del Tribunale di Roma, prima sezione civile. In discussione la richiesta di interrompere le cure, di staccarlo dal respiratore che lo tiene in vita artificialmente senza che esistano prospettive di miglioramento. Di ricevere, inoltre, una sedazione terminale per non patire altre sofferenze. I Radicali hanno sospeso lo sciopero della fame al quale avevano aderito 700 persone. È stato lo stesso Welby a rivolgere l'invito agli amici dell'associazione di cui è co-presidente, tanto più che uno degli obiettivi della protesta è stato raggiunto. La nomina giovedì scorso del nuovo Comitato di bioetica da parte della Presidenza del Consiglio.
PARERE — Mercoledì invece si riunisce la sezione del Consiglio superiore di Sanità, organismo consultivo del ministero della Salute. La Turco vuole un parere che chiarisca se le cure a Welby possono essere considerate accanimento terapeutico. In questo caso dovrebbero essere se non altro attenuate. Per avere il documento probabilmente non basterà un giorno. «Finiremo in tempi stretti, prima di Natale. Che ne penso? Devo svolgere un ruolo notarile. La storia umana è sconvolgente». L'epidemiologa Eva Buiatti e l'internista Franco Dammacco, coordinatori di due delle sezioni, hanno ricevuto il compito di impostare il lavoro. Il parere sarà votato dall'assemblea riunita.
POLEMICHE — Sono trattamenti eccessivi, sproporzionati secondo Alfonso Pecoraro Scanio, ministro dell'Ambiente, quelli sopportati dall'esponente radicale: «Bisogna capire se è giusto tenerlo in vita a forza, torturandolo, senza possibilità di guarigione. Credo nessuno vorrebbe fosse curata così una persona cara. Altra cosa è l'eutanasia». Pannella senza mezzi termini dice che è «un caso clamoroso e infame di accanimento terapeutico». Ha diritto a essere separato dal respiratore, incalza Maurizio Mori, presidente della Consulta di bioetica, organismo non istituzionale, molto laico. Cesare Salvi, ds, ritiene che «sia inaccettabile negare a un uomo diritti fondamentali». Il capogruppo della Rosa nel Pugno, Roberto Villetti, rinfaccia agli «integralisti cattolici» di fare sbarramento su eutanasia e unioni di fatto. Il centrodestra non arretra. Si schiera anche Umberto Bossi, netto, lapidario: «Sono contrario all'eutanasia. La vita me l'ha data il Padreterno. Lasciamo a lui scegliere quando si deve vivere e quando si deve morire». Per Domenico Di Virgilio, di Fi, commissione Affari sociali della Camera «è strano che a far notizia sia solo chi sbandiera il diritto a morire e restano invece silenziose le voci di chi invoca un aiuto per vivere dignitosamente». Da Riccardo Pedrizzi, An, un attacco al presidente della Commissione Sanità del Senato, Ignazio Marino: «Deve rileggere il catechismo. Questo non è accanimento terapeutico».
STORIE DIVERSE — A nome dei malati che vivono in modo completamente opposto le ultimi fasi della vita, alla quale continuano a restare avvinghiati anche se le cure non producono beneficio, la testimonianza di Gianfranco Cappello, responsabile del servizio di nutrizione artificiale al Policlinico Umberto I. Su 9.000 casi, racconta il medico che si occupa di servizio domiciliare per pazienti che non possono alimentarsi altro che col sondino, nessuno ha mai espresso il desiderio di interrompere le cure, di accelerare la morte.
"Welby ha diritto di morire"
• da La Stampa.it del 10 dicembre 2006
di Paolo Colonnello
Ancora due giorni e il tribunale civile di Roma dovrà decidere se Piergiorgio Welby, da 40 anni completamente immobilizzato, avrà diritto o meno a staccare il respiratore automatico che lo tiene in vita. Un gesto che dovrà compiere qualcuno al posto suo, visto che Welby, presidente dell’associazione radicale Luca Coscioni, è totalmente incapace di qualsiasi movimento, sebbene viva nel pieno delle facoltà mentali. Scelta difficile quella dei giudici romani perché secondo alcuni, in caso di risposta positiva, verrebbe autorizzata in pratica l’eutanasia, prassi non prevista dalla legge. Eppure, tra le pieghe del codice, qualche spiraglio che Welby vinca la sua battaglia, c’è. Ne è convinto, ad esempio, Amedeo Santosuosso, giudice della Corte d’Appello di Milano, docente di diritto e scienze della vita a Pavia e tra i fondatori della consulta di bioetica.
Perché Welby potrebbe vedersi riconosciuto il diritto a “staccare la spina”?
«Perché questo non è un caso di eutanasia, né di stato vegetativo permanente, né di testamento biologico. Questo è invece un caso di rifiuto del trattamento salvavita».
E’ un diritto in Italia rifiutare delle cure?
«Sì, fondato sugli articoli 13 e 32 della Costituzione. L’articolo 13 riconosce la libertà personale come inviolabile; l’articolo 32 prevede il diritto alla salute che comprende tanto il diritto ad essere curati quanto quello a non esserlo. Se così non fosse questo diritto si trasformerebbe in un dovere».
Ed è riconosciuto anche a livello giuridico e deontologico?
«Assolutamente sì. E lo è anche a livello etico, come sancito dal Comitato di bioetica nazionale nel 1992 con il documento sul consenso informato (piattaforma condivisa anche dalle componenti cattoliche) che riconosce il diritto esplicito di rifiutare un trattamento, anche se salvavita. E questo è un caso chiaro di rifiuto di trattamento».
E allora perché questa battaglia?
«Perché esiste un problema sull’iniezione che Welby chiede per evitare la dispnea, cioè il senso di soffocamento che lo coglierebbe qualora venisse staccato il respiratore. Secondo alcuni il medico cui spetterebbe questo compito, interverrebbe attivamente sulla sua morte aiutandolo in un vero e proprio suicidio e commettendo perciò un atto illecito. È su questo che l’opinione pubblica si divide».
Lei cosa ne pensa?
«Non credo sia corretta questa interpretazione. Penso che nel momento in cui viene meno il respiratore, il medico compie un atto doveroso se cura il sintomo. Non vi sono alternative: o il medico viola la volontà della persona, oppure procede con la sedazione che viene fatta anche ai malati terminali».
Cosa farebbe al posto dei suoi colleghi?
«È una domanda alla quale non posso rispondere. Dico solo che chiunque si trovi a dover decidere, dovrebbe andare a sentire Welby direttamente. Il nodo della questione è che lui è capace d’intendere e volere, dunque in grado di esercitare ogni suo diritto, compreso quello di voler morire».
Perciò il tribunale potrebbe ordinare di sospendere il trattamento?
«Io credo di sì. Ci sono tutte le condizioni giuridiche perché la richiesta di Welby venga accolta. E il tribunale potrebbe anche ordinare di assisterlo il meglio possibile, ovvero con la sedazione. Tengo molto a ribadire l’aspetto doveroso del comportamento del medico».
Esistono dei precedenti?
«In un certo senso sì. C’è il caso della signora Maria che non volle farsi amputare la gamba andata in cancrena. Venne assistita con degli antidolorifici e poi morì. Ma la sua volontà venne rispettata. Anche Welby ha una volontà precisa e determinata. Tenerlo attaccato a quel respiratore significherebbe perpetrare la violazione della sua libertà personale».
Lo Stato non è padrone di Welby
• da Libero del 10 dicembre 2006, pag. 7
di Antonio Martino
C'è un aspetto fondamentale del caso di Piergiorgio Welby che non mi sembra sia stato affrontato esplicitamente e che, a parer mio, merita di essere evidenziato. Per un credente, la sua vita appartiene a Dio; un non credente è invece convinto che la sua vita appartenga a lui, e a lui soltanto. Com'è ovvio, sarebbe impossibile, attraverso una discussione razionale, mettere d'accordo i due punti di vista. Come sosteneva Frank Knight, il fondatore della prima Scuola di Chicago di economia: “L'unico modo di evitare controversie sui grandi principi è quello di non discuterli mai”. A mio parere, tuttavia, non è affatto necessario che uno dei due rinunci al proprio punto di vista. Entrambi hanno pieno diritto a mantenere la propria opinione e a comportarsi di conseguenza. Su un punto a me sembra che non possano che essere d'accordo: le loro vite non appartengono allo Stato. Invece, la vicenda Welby dimostra che proprio questa è l'opinione di gran parte dei protagonisti. Lo Stato si intromette nel rapporto di Piergiorgio Welby con la sua vita; solo lo Stato,grazie alla superiore saggezza dei suoi illuminati legislatori,hall diritto di stabilire se Welby possa o meno cessare di subire intollerabili sofferenze. Se il ministro della Salute o chi per lui alza il pollice verso l'alto, Welby potrà addormentarsi senza continuare a soffrire; se invece il pollice è rivolto verso il basso, Welby deve continuare a patire le pene dell'inferno. Vi sembra accettabile, ragionevole, sensata questa impostazione? A me no. Divieto assurdo. La tesi ha una sua storia,come confermato dalle leggi che vietano il suicidio. Si arriva all'assurdo che può essere punito il tentativo non riuscito ma non il reato consumato (la Chiesa, in realtà,commina una pena postuma vietando la sepoltura del suicida in terra consacrata). Badate bene che non sto affatto mettendo in dubbio la sacralità della vita: quello è uno dei pochissimi valori indiscutibili. Ritengo che abbiamo il diritto e forse anche il dovere di cercare di dissuadere un nostro simile dal togliersi la vita. Manon credo affatto che siamo autorizzati all'uso della forza per impedirglielo, specie quando non di vita si tratta ma di sopravvivenza che ha assai poco di umano e che è caratterizzata da sofferenze inenarrabili. L'assurdità di sostenere chela mia vita appartiene allo Stato è solo una delle tante manifestazioni di statolatria del nostro tempo. Che dire del fatto che è implicitamente accettato da moltissima gente che, dal momento che lo Stato sopporta il costo delle cure mediche, attraverso il servizio sanitario nazionale, la mia salute non appartiene a me ma allo Stato? E' in base a questo aberrante principio che i politicanti si arrogano il diritto di impormi come vivere, cosa e quanto mangiare, se fumare o non fumare, in un crescendo rossiniano di insensatezze:diete obbligatorie (ci arriveremo), divieto di taglie di vestiti da donna troppo ridotte (per impedire la tentazione all'anoressia), lotta alla sedentarietà(prima o poi ci costringeranno a fare jogging inseguiti da agenti speciali del ministero della Salute), e via farneticando. Come ho altra volta ricordato,questa impostazione pone un dilemma quasi insolubile all'autentico patriota. Se, infatti, vive seguendo pedissequamente i canoni del salutismo più bigotto, si astiene dall'assumere rischi evitabili,si comporta come se fosse malato in modo da essere in perfetta forma al momento del trapasso, fa risparmiare al servizio sanitario nazionale quanto avrebbe dovuto spendere se si fosse ammalato. Ma se la bigotteria salutista gli allunga la vita, mette a repentaglio la solvibilità del sistema pensionistico pubblico. Che fare? Semplice. Vivere in perfetta salute fino all'età del pensionamento e poi tirare le cuoia! Purtroppo, c'è assai poco da ridere, sono temi maledettamente seri. Dobbiamo ribellarci con tutte le nostre forze alla tendenza, tanto più pericolosa in quanto subdola, ad attribuire allo Stato (cioè apolitici e politicanti) la proprietà sulle nostre vite. Non è vero che esistano valori assoluti noti soltanto ai nostri governanti e da noi ignorati e non è, quindi, accettabile chele scelte riguardanti le nostre vite debbano essere prese da loro anziché da noi. Giù le mani dalla mia vita!
La pietas è ascoltare Welby, non ignorarlo
• da La Repubblica del 8 dicembre 2006, pag. 22
di Corrado Augias
Caro Augias, guardando i programmi TV, leggendo i giornali, sembrerebbe che esista un’unica risposta cristiana per chi chiede di interrompere la propria esistenza a causa di una malattia terminale. Posso dire che non è così sulla base dei documenti elaborati dal “Gruppo di lavoro sui problemi etici posti dalla scienza”, nonché dalla mia pratica pastorale come cappellano clinico.
Ritengo che il richiamo alla pietas fatto da Welby sia condivisibile non soltanto dal non credente, ma anche dal cristiano, a qualunque confessione appartenga. Le tecnologie permettono oggi di prolungare fino all’inverosimile esistenze che per vie “naturali” sarebbero già concluse. Allora si tratta davvero di prolungamento della vita o non ci troviamo di fronte al prolungamento dell’agonia?
Alla domanda “chi è il mio prossimo?”, Gesù risponde con la parabola del samaritano, come a ricordare che il mio prossimo è anche colui che non la pensa come me, che non ha il mio stesso sistema di credenze e di valori. E allora, non è detto che la visione etica o bioetica di una chiesa vada accettata da tutti o imposta a tutti, indipendentemente dal loro credo o in assenza di un credo.
Amore per il prossimo significa dunque anche prendere sul serio le domande, anche quelle scomode, e non valutarle o, peggio ancora, ignorarle a partire dai principi generali fissi e immutabili.
Nella situazione di Welby, la pietas, o se preferiamo, la carità cristiana, potrebbe trovarsi non già in un rifiuto perentorio alla sua richiesta di porre fine alle sofferenze, bensì all’accoglimento di quella volontà
Sergio Manna, pastore valdese.
Risponde Corrado Augias
La pietas che il pastore Manna invoca è scritta nella lettera di Welby al presidente della Repubblica: “Sua Santità benedetto XVI ha detto che “fi fronte alla pretesa, che spesso affiora, di eliminare la sofferenza, ricorrendo perfino all’eutanasia, occorre ribadire la dignità inviolabile della vita umana, dal concepimento al suo termine naturale”.
Ma che cosa c’è di “naturale” in una sala di rianimazione? Che cosa c’è di naturale in un buco nella pancia e in una pompa che la riempie di grassi e di proteine? Che cosa c’è di naturale in uno squarcio nella trachea e in una pompa che soffia l’aria nei polmoni? Che cosa c’è di naturale in un corpo tenuto biologicamente in funzione con l’ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale, morte – artificialmente – rimandata?
Io credo che si possa per ragioni di fede i di potere giocare con le parole, ma non credo che per le stesse ragioni si possa “giocare” con la vita e con il dolore altrui. Quando un malato terminale decide di rinunciare agli affetti, ai ricordi, alle amicizie, alla vita e chiede di mettere fine ad una sopravvivenza crudelmente “biologica” – credo che questa volontà debba essere rispettata e accolta con quella pietas che rappresenta la forza e la coerenza del pensiero laico”.
Aggiungo a queste strazianti e lucide parole solo una considerazione, riprendendola da ciò che ha scritto giorni fa Adriano Sofri su “Repubblica”. “Il cielo esima da prove analoghe su di sé chi rifiuta per principio di ascoltare il grido disperato di Piergiorgio Welby. I principi astratti applicati ad un tale dolore, diventano implacabile ferocia.
La moglie e l'anniversario che spera di non festeggiare
LA SCELTA
All'inizio non accettavo la sua battaglia, ora ho capito
• da Corriere della Sera del 10 dicembre 2006, pag. 2
di Alessandra Arachi
ROMA—Adesso il «suo» carcere più duro comincia con l'inizio della notte. Perché adesso suo marito Piero non riesce più a dormire. L'aria del ventilatore sfugge via dai muscoli dell'uomo che ormai vanno allentandosi ora dopo ora, come i brandelli della sua vita rimasta. Mina si sveglia con lui, in queste notti. E sistema i tubi, accarezza i capelli, conta i minuti che scattano sulla radiosveglia. Sospira: «Per Piero la sua prigione è cominciata quasi dieci anni fa».
Lo ha scritto lo stesso Welby in un libro: era il 14 luglio 1997 quando dopo un malore si è svegliato tracheotomizzato. Si è svegliato collegato alla macchina, attaccato a una spina che adesso non può più staccare. È stata Mina a lasciare che lo collegassero a quella macchina. A non impedire che venisse collegato. Il patto fra di loro era stato diverso.
Quando si sono sposati, la malattia di Piero gli aveva gia rovinato l'uso delle gambe ma non certo tolto il sorriso e quella voglia di vivere che Mina ha potuto godere nell'intimo, fin dal primo momento che lo ha visto. «Io e Piero ci siamo conosciuti dentro un ospedale. Piero era lì per alcune sue cure, io per assistere un parente». Mina aveva quasi quarant'anni, Piero una manciata di anni in meno: il colpo di fulmine li ha portati all'altare in un batter d'occhio. Mina non ha mai avuto paura di quella malattia dal nome cattivo e dall'esito ineluttabile: distrofia muscolare progressiva. Non ci sono farmaci che possono curarla, ancora. Non c'è verso di arrestare il disfacimento progressivo del tessuto muscolare.
Non ha paura nemmeno adesso, Mina. E forse nemmeno rimpianto: sì, è vero, a Piero aveva promesso che non lo avrebbe mai fatto attaccare a una macchina. Però anche i primi anni della «prigione» hanno dato un senso alla loro vita, e anche un senso allegro. Racconta: «Piero scriveva e lavorava, parlava, mangiava. Era attivo. Nel 2002, poi, ha cominciato la sua battaglia per l'eutanasia. Si è iscritto ai radicali. Gestiva un sito che ha, a oggi, migliaia e migliaia di contatti. Un senso vero, insomma». E lei insieme con lui. Il suo angelo custode, pacato, sereno. Sorridente. Fino a qualche mese fa.
«Dalla fine dell'estate è diventato tutto diverso. La vita di Piero è letteralmente precipitata in un nulla che non gli permette nemmeno più di scrivere, se non per una mezz'ora al giorno, al più. Ha scritto la lettera al capo dello Stato, a fine settembre, e gli era sembrata già un'impresa. Nulla a confronto con la fatica per scrivere due giorni fa una lettera ai direttori dei quotidiani: ci ha messo giorni e giorni e non riusciva a finirla». Adesso Piero non riesce a dormire la notte e fa sempre più fatica a deglutire persino le pappette che Mina continua a preparargli come fosse un neonato. «Quando a settembre ha scritto a Napolitano per implorare la grazia di staccargli la spina io l'ho assecondato e l'ho aiutato nella sua battaglia, ma la verità è che nell'intimo non avrei voluto che questo succedesse sul serio. Adesso gliela staccherei io quella spina se soltanto non temessi un'agonia terribile». Adesso Mina non lo dice, ma spera di non arrivare a festeggiare il loro anniversario di matrimonio: il 5 gennaio sarebbe il ventisettesimo.
Magari qualcuno non sapesse chi è Welby, detto il Calibano, ripropongo un suo appassionato intervento del 28 aprile scorso.
Comprereste un Testamento biologico dalla Binetti?
di Piero Welby (Il Calibano)
da Notizie Radicali
venerdì 28 aprile 2006 (numero duecentoquarantasette)
http://www.radicali.it/newsletter/archive.php
Ma per quale ragione un paziente competente che impone la sua volontà al medico non riduce la medicina a esecuzione di prestazioni a richiesta,
mentre questo effetto verrebbe prodotto da un'analoga decisione
precedentemente assunta dallo stesso paziente?
(Demetrio Neri, docente di Bioetica nella Facoltà di Scienze della
formazione dell'Università di Messina)
Se l’amarcord giamaicano di Gianfranco Fini è stato lo spinello nel fianco della Cdl, le interviste di Paola Binetti sono la spina nel fianco della Rnp.
Nel tourbillon del toto-ministri, di solito, si entra papi e si esce cardinali, ma la legge di Murphy avverte che se qualcosa può andar male, lo farà. Quindi, fatti i dovuti scongiuri e, recitate le irripetibili giaculatorie apotropaiche, il peggio che ci possa capitare è che Paola Binetti entri in conclave Presidente del comitato "Scienza & Vita" e ne esca Ministro della Salute.
Nell’intervista rilasciata a Il Giornale del 21 marzo 2006, Paola Binetti ha risposto all’intervistatrice, Francesca Angeli, che, non potendo battersi contro l’aborto perché “i tempi non sono maturi”, si batterà contro l’eutanasia anche nelle situazioni disperate e che la sua posizione in merito è “chiara e limpida ed è sempre stata la stessa.”
In attesa che i tempi, giunti a maturazione, le permettano di cancellare la Legge 194 e che le recenti riflessioni del Cardinal Martini la costringano, si spera, ad una caritatevole palinodia, la sola cosa che possiamo chiedere alla futura Ministra della Salute è che ci faccia la concessione di un Testamento Biologico (DAT) che ci permetta di decidere, in caso di malattia, del nostro corpo.
La cosa non dovrebbe andare contro i saldi convincimenti della Binetti perché lei stessa ha dichiarato che le sue opinioni divergono da quelle della Rosa nel Pugno perché i Rosapugnanti sono orientati “alla difesa del diritto individuale, dimenticando il diritto dell’altro”, ma nel caso del Testamento Biologico i diritti dell’altro e dell’individuo coincidono, quindi non si dimentica o calpesta il diritto di nessuno. Oddio, credevo di non uscirne vivo!
La Binetti, guarda caso, è anche membro del Comitato Nazionale di Bioetica che il 18 dicembre 2003 ha approvato il documento "Norme in materia di dichiarazioni anticipate di trattamento" dal quale si evince che quando, nell'ambito della medicina, si abbia a che fare con “dichiarazioni anticipate di trattamento“ che possono implicare una limitazione dell'autonomia professionale del medico e della sua libertà di scelta terapeutica, tali indicazioni vanno considerate in contrasto insanabile con l'etica della professione medica e quindi non possono essere ammesse.
Insomma, detto in soldoni, suonerebbe così: tu decidi pure di cosa fare del -tuo- corpo, ma nella malaugurata ipotesi di uno Stato vegetativo persistente che, come nel caso di Eluana Englaro, la ragazza in coma dal 18 gennaio del 1992, “spenga” per sempre ogni speranza di risveglio, i medici continueranno a curarti artificialmente, nutrirti artificialmente e, se fosse necessario, a ventilarti i polmoni artificialmente, fino al giorno della tua morte “naturale”.
Se poteste scegliere, preferireste “acquistare” un Testamento Biologico dal
Prof. Veronesi o dalla Prof.ssa Binetti?
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E VOI CHE FARESTE?
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